Uno sguardo d’insieme su Letizia Forever, Ouminicch’ e ‘A cirimonia in scena a Catania al Centro universitario teatrale e Piccolo Teatro della Città
L’inizio del mese di dicembre è stato accompagnato dalla presenza catanese del drammaturgo, regista e attore Rosario Palazzolo.
Oltre al laboratorio di creazione drammaturgica Sull’arte di infrangersi(leggi l'articolo di Beatrice Magrì), grazie alla collaborazione tra l’Università di Catania e il Teatro della Città l’autore palermitano ha potuto mettere in scena Letizia Forever, Ouminicch’ (rispettivamente il 4 e il 5 dicembre, al Centro Universitario Teatrale) e ‘A cirimonia (il 6 e il 7 dicembre, al Piccolo Teatro della Città).
Questo viaggio nell’immaginario palazzolesco, che ha visto l’entusiasta e numerosa partecipazione di studenti e studentesse del nostro Ateneo, è stato possibile grazie all’impegno della professoressa Simona Scattina, docente di Discipline dello spettacolo presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche.
La poliedricità dell’artista, l’abilità nel modellare la parola, l’interesse per la dimensione memoriale dell’essere umano portano Palazzolo a essere ormai considerato un “classico contemporaneo”, definizione su cui si è tentato di ragionare anche insieme a lui in una video intervista. Vale allora allora la pena di soffermarsi su alcuni elementi di quanto visto in teatro e fare il punto su un autore noto e apprezzato dal pubblico che, ancora una volta, stupisce.
Un momento dello spettacolo Ouminicch’
4 dicembre, Cut: Letizia forever
La breve rassegna catanese si è aperta con Letizia forever, opera del 2013 che ha ormai superato le duecento repliche.
La scena, curata dallo stesso Palazzolo, è essenziale, ma precisa: al centro una piccola pedana rettangolare, su di essa una sedia, alla sua destra un tavolino con sopra un lettore cd. Umile e imponente allo stesso tempo, siede di fronte al pubblico per un’ora e mezza Salvatore Nocera, con folta barba e indumenti femminili, comunicando abilmente il delicato imbarazzo di Letizia con sintomatici gesti del corpo: si gira verso i lati, si tocca le ginocchia, tira giù la veste un po’ sgualcita per coprirsi.
Sulla sua testa pende una palla da discoteca, che di concerto con canzoni «genere amore» di Giuni Russo, Viola «Valentina», Pupo e altri vuole ricreare l’atmosfera dei «fabulosi anni Ottanta» per favorire il racconto del passato di Letizia durante la «cura musicale» a cui è sottoposta, cioè una psicoterapia in cui «parlando nel mentre che suona la musicassetta nuova può essere che capisca le cose che ha fatto».
Solo questa determinata atmosfera riesce a far ripercorrere alla donna il decennio dorato della sua vita, in cui conobbe il suo futuro marito, si sposò con una fuitina e si trasferì a Milano; decennio troncato poi dagli «schifiosi anni Novanta» inaugurati dal tradimento da parte del coniuge.
Si alternano due piani della narrazione, uno fatto di musica e uno di silenzi. Nei momenti di «pause» dominano l’indugio, la reticenza su di sé, il riempimento del vuoto con una superflua bulimia di informazioni sui cantanti tratta da «Sorrisi e Canzoni»; ma quando Letizia preme play, la musica accompagna un vorticoso flusso di flashback narrati dall’eloquio veloce di Letizia, che prova a risolvere il «rebus» di se stessa sotto la luce rosa dell’«icoscio» e la rotazione della sfera specchiata.
La tensione metateatrale è altissima fin da subito e attraversa tutta la pièce. «Mi portàro la musicassetta […], m’addumaru le luci, mi misiro u microfrano», svela Letizia (che più tardi si identificherà proprio con il ruolo di attrice) chiamando in causa dei non identificati iddi registi della sua cura, il cui ritmo drammaturgico sembra in effetti scandito da quegli stessi tasti del suo lettore cd: «su tutte regole ca ‘nvintàrunu iddi».
Con il pronome indefinito siciliano iddi – da cui anche il titolo di un volume del 2016 per Editoria & Spettacolo in cui Palazzolo ha raccolto Letizia, Ouminicch’ e Portobello never dies come trittico dell’ironia e della disperazione – il testo indica gli psichiatri che curano Letizia, ammicca alla regìa ma vuole anche rappresentare il contorno sfumato che l’esterno, l’altro, la società assume al cospetto di un Io che con il reale ha firmato le carte del divorzio già da tempo.
Questa insanabile frattura porta all’impossibilità di affermare una verità di se stessa, una identità ben definita: «la realtà, pi mia, è una cosa troppo incarbugliata […]. Ca magari a voialtri vi pare l’unica cosa, e invece è solo n’àvotra cosa». Il relativismo travolge la possibilità di un’ontologia. Chi è Letizia? Non lo sa suo figlio Michelino, che «un poco [la] chiama mamma, un poco [la] chiama papà»; non lo sa lei, che a questa domanda riesce solo a rispondere, alzando le spalle, con una tautologia: «Io sono Letizia, in realtà».
La sua autobiografia, raggiunto il momento culminante, è interrotta dal riavvolgimento del nastro, dal ritorno della canzone iniziale che legittima ora l’uso del tasto «rewwe» (rewind). La faticosa risoluzione di «sciogliere la lingua» non si compie e Letizia resta confinata in un limbo di reiterazione eterna (perciò forever) dell’accostamento alla verità senza alcuna chance di raggiungerla.
Eppure, va detto, un’ombra dell’identità di Letizia si conserva nello spettatore. È quella data dal linguaggio, vera cifra della drammaturgia di Palazzolo, che è sempre abile nel costruire gli idioletti dei suoi personaggi. Sfruttando la commutazione di codice con il palermitano e i tratti di un italiano regionale popolare non usato esclusivamente come indicatore sociolinguistico, l’autore manipola la lingua e «corrompe» le parole per ampliare la loro capacità espressiva.
Un momento dello spettacolo Letizia forever
5 dicembre, Cut: Ouminicch’
«La fine è nel principio, eppure si continua»: così dice Hamm nel Finale di partita di Beckett. Un testo come quello di Ouminicch’, che per più aspetti strizza l’occhio al teatro dell’assurdo, non potrebbe trovare migliore sintesi.
Primo atto del trittico di cui fa parte anche Letizia forever, è il secondo testo che Palazzolo ha scritto per il teatro, nel 2007.
Trentaquattru (Palazzolo) e Trentasetti (Nocera) si ritrovano insieme, seduti ai lati di una bara, in una stanza con una porta bianca e una radio accesa che, con qualche irregolarità, trasmette le musiche di Francesco Di Fiore.
Sono lì per consumare il Sacramento dâ Pesatura, una moderna e laica psicostasia per scegliere chi dei due dovrà morire per primo. Il rito ha una struttura ben precisa, delle fasi il cui ordine va rispettato, un linguaggio formulare e ripetitivo, delle regole incomprensibili e irrazionali agli occhi di chi lo svolge («è tutto a senso […] io e tu parramu senza ca esiste nessuna verità»).
Tra battibecchi in palermitano stretto e pause silenziose, i due uomini giocano una sorta di eterna partita di roulette russa consegnando i loro destini, in realtà già decisi, alla pura casualità. In questo senso, l’impossibilità di scelta che Palazzolo afferma di trattare qui – collocando peraltro il testo anche in una trilogia dell’impossibilità, con ‘A cirimonia e Manichini – è l’impossibilità di autodeterminarsi, insita nella stessa natura dell’essere umano.
Trentaquattru, il più giovane dei due, tenta di uscire da questo loop bruciando le tappe del gioco, ma i suoi sforzi volti alla ricerca vana del libero arbitrio sono tutti destinati al fallimento. Non riesce a farsi uccidere dall’improvvisamente pavido Trentasetti, quando estrae una pistola dalla bara e si pone come bersaglio («Voglio mòriri come dico io e no come dicinu iddi»), né porta a termine la fuga, vista come equivalente alla permanenza in quella stanza («qua dentro vinisti pi mòriri e là fuori stai andando pi mòriri»), perché interrotto da un richiamo all’ordine da parte di iddi, che controllano ogni scelta degli uomini con una telefonata.
Iddi sono in Ouminicch’ quasi delle divinità indifferenti, che ridono di fronte al tentativo dell’uomo di mutare la propria sorte. Non a caso, nella «Dote» di oggetti che ogni uomo ha con sé per il «Sacramento» mettono sempre un cacciavite che serve per riparare la porta, nel caso in cui venisse rotta: «Iddi lo sanno comu finisce».
Un momento dello spettacolo Ouminicch’
6 dicembre, Piccolo Teatro della Città: ‘A cirimonia
A quindici anni dalla sua genesi, questo testo torna in scena dopo essere anche stato attraversato da Enzo Vetrano e Stefano Randisi (a Catania nel 2021), e dopo la premiazione da parte dell’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro.
Questo «atto d’amore» (così si legge sul foglio di sala), chiude circolarmente la settimana catanese di Palazzolo, con una ripresa del tema dell’impossibilità della verità, stavolta portato all’estremo da due personaggi che non hanno nemmeno un nome, ma sono identificati solo con il loro genere: ‘U masculu (Palazzolo) e ‘A fimmina (Anton Giulio Pandolfo).
I due si trovano in un non-luogo del ricordo dall’aria a tratti noir. Sulle note di una filastrocca d’infanzia (la voce è di Viola Palazzolo) traggono i propri abiti da un cumulo di vecchi vestiti, indossano i costumi di scena, e si riuniscono poi «festivi e cuntenti» per celebrare una cerimonia, senza però sapere «cu siemu, quannu siemu, unni siemu, picchì siemu».
La verità, cioè la risposta a queste domande, è il rimosso che deve (o, meglio, dovrebbe), in termini freudiani, ritornare alla luce. Di fronte a una torta di compleanno i due recitano, ascoltando la coinvolgente musica di Gianluca Misiti in sottofondo, la formula del «mi ricordo», un “apriti sesamo” della memoria.
Solo conquistato il ricordo possono procedere nella cerimonia, che serve proprio «a ricurdàrisi la verità». Ma i brandelli di memoria che si manifestano brevemente, le voci fuori campo del passato rimangono nell’area della soggettività. I ricordi non sono condivisi, anzi la loro autenticità è sempre contraddetta e messa in discussione dall’uno o dall’altro.
Il relativismo sfocia nello scetticismo. Viene meno la certezza matematica dell’addizione, perché il suo risultato «non considera tutto quello che scomparisce». Viene meno l’utilità della comunicazione, che non riesce più ad affermare la sua primaria e vitale funzione pragmatica.
Viene meno, infine, l’identificazione dei due personaggi, fondata solo su un linguaggio il cui stesso scheletro della morfologia flessiva si staglia nella sua arbitrarietà («con la -a»). La vicenda non può che concludersi dimostrando, con un metateatrale ribaltamento dei ruoli e dei generi, che la verità è tutta questione di punti di vista.
Un momento dello spettacolo 'A cirimonia (foto di Dino Stornello)