Al Piccolo Teatro della Città è andato in scena "Se son fiori moriranno", primo spettacolo del Dittico del sabotaggio scritto e diretto da Rosario Palazzolo
Una pallida foschia accoglie il pubblico in sala: la nebbia che offusca i ricordi custodisce il segreto della terribile vicenda di Adele, protagonista di Se son fiori moriranno.
La drammaturgia è di Rosario Palazzolo (leggi l'articolo relativo all'incontro di presentazione a Retroscena 2024), che ancora una volta si dimostra in grado di creare personaggi con cui è possibile instaurare un rapporto di intimità, compassione – nel senso etimologico del termine – e catarsi.
In poco più di un’ora Adele svela il suo dramma raccontandolo a ritroso, con necessari salti tra passato e presente, tra realtà e immaginazione.
A interpretarla è una straordinaria Simona Malato, che si fa carico della complessità emotiva del personaggio e la trasmette sfidando lo spettatore con sguardi intensi e movimenti ridondanti e precisi, mostrando la nevrosi ossessivo-compulsiva di una donna alienata i cui gesti sono proiettati su se stessa e sul corpo della figlia Luisa.
Di quest’ultima veste i panni l’altrettanto abile Chiara Peritore, che si dimostra decisamente all’altezza del difficile ruolo assegnatole.
Luisa ha diciotto anni, ma nello spazio della mente di Adele è ancora bambina: la sua vita, almeno quella cerebrale, si è interrotta intorno agli otto anni a causa di un incidente domestico e, da allora, respira grazie alle macchine.
Luisa, interpretata da Chiara Peritore, nella vasca avvolta dalla foschia
Dunque l’interazione con la madre, fondata sul ricordo e sulla nostalgia di ciò che poteva essere, ma non è stato e non sarà più, ha carattere prevalentemente ludico, fisico e cinetico, contrapposto alla staticità iniziale (e poi finale) del corpo inerme della giovane, che all’ingresso del pubblico è già sulla scena, collocato dentro una vasca da bagno posta al centro del palco.
Nella sua memoria Adele gioca ancora con la figlia; si dibatte tra il rimpianto del passato e la speranza che il recupero dell’infanzia spezzata possa aiutare Luisa nella transizione verso una nuova dimensione: è giunto, infatti, il momento di staccare la spina.
Solo grazie alla cornice di dialogo tra Adele e la voce fuoricampo di una psicologa (l’attrice Delia Calò, che significativamente siede tra gli spettatori) apprendiamo la tragedia accaduta e quanto questa abbia stravolto la vita della donna, portandole via il suo bene più prezioso, tutto ciò che amava. Raccontando «della sua vita come era prima», Adele spiega che aveva sempre posto al centro la propria famiglia, composta solo da sé e da Luisa, frutto di «un errore fatto da ragazza»: perciò non aveva un marito.
La disperazione di Adele dopo il fatale infortunio della figlia Luisa
Lavorava in casa, non frequentava amici, le bastava condividere la quotidianità con la figlia: «ma che mi interessava degli amici? C’era mia figlia: facevo tutto con lei». In seguito al fatale infortunio, rimasta completamente sola, Adele può solo rifugiarsi nell’immaginazione, unico luogo in cui ancora riesce a dare un senso all’esistenza, in cui può far (ri)vivere la sua bambina.
Le due protagoniste abitano uno spazio scenico curato nel dettaglio dalla scenografa Mela Dell’Erba, che lo costruisce in modo da trasmettere un senso di intimità domestica, espresso da riconoscibili oggetti dell’infanzia di Luisa (un tavolino e una cucina giocattolo, una casa di Barbie).
Tale spazio, altresì, esprime un simbolismo quasi surrealista, di cui sono parte il pavimento a scacchiera (metafora, come insegna Bergman, dell’imprevedibilità del gioco della vita, il cui esito può essere modificato a ogni singola mossa), una porta sprangata sullo sfondo e una lunga corda disposta circolarmente alla cui estremità si trova una presa attaccata a una spina. Tutti elementi liminali tra realtà e finzione, o meglio, tutti recinti dell’immaginazione di Adele.
Il confine tra le due dimensioni, ben delineato nello spazio fisico, viene ulteriormente indicato dal light design di Gabriele Gugliara e dalle musiche originali di Gianluca Misiti, suoni malinconici e insistenti che si sentono con volume più alto o più basso, per poi talvolta arrestarsi del tutto, quando la realtà sovrasta le proiezioni della mente.
La figlia Adele mentre gioca
D’altra parte l’opera tutta, a detta dello stesso drammaturgo e regista Palazzolo, ha come obiettivo quello di indagare l’immaginazione come strumento di sabotaggio del reale, come «unica alternativa che abbiamo, la sola che ci permette di spostare avanti il limite del precipizio […] costruendo immaginari improbabili con una risolutezza manichea, che riesce a trasfigurare la verità».
Come suggerisce la psicologa, «occorre la verità, sentirsela addosso, subirla, patirla. È partendo dalla verità che si costruisce l’immaginazione».
Soltanto l’immaginazione può permettere ad Adele di guardare in faccia il trauma dell’evento banale che le ha cambiato la vita, che ha reso la realtà un luogo che «c’ha troppo reale» e da cui, di conseguenza, è necessario evadere, reinventarlo.
«La realtà? È sottosviluppata, per me, come la dicono loro. […] come la dico io è fantasiosa, perché io me la figuro esistibile, non come quello che esiste ma come quello che manca».
La realtà definita non come presenza, ma come assenza; non come verità, ma come immaginazione, non come vero ma come «veribile».
Il ragionamento sull’immaginazione diventa pertanto riflessione sulla vita stessa, sulla definizione del soggetto e del suo rapporto con l’altro.
Madre e figlia mentre giocano
Anche l’alterità, infatti, è centrale in questo lavoro, ed è indagata nel «noi con voi», cioè tramite la ricerca, probabilmente vana, di un contatto con gli «alieni», come Adele definisce gli spettatori della sua immaginazione e, forse, anche noi presenti in sala, nel senso fantascientifico, ma forse anche in quello latino di altro-da-sé.
L’esistenza dell’altro e dell’altrove non è una certezza, bensì una speranza («che non mi era arrivata mai una speranza così), a cui Adele si appiglia per spiegare l’inspiegabile, ciò che è così tanto irrazionale da rendere più plausibile la vita extraterrestre (magari su un paese che dagli «scienziati terrestri» sarà stato chiamato «Onirio», nomen loquens).
Alieno, in fondo, è semplicemente qualcosa che non riusciamo a spiegare con la ragione: la creazione, la divinità, il dolore, ciò che supera l’immaginabile; «l’immaginazione che mi sto immaginando è troppo difficile», dichiara Adele.
E come è necessario rielaborare il reale, altrettanto lo è creare un sistema linguistico nuovo, altro, una grammatica e un lessico inediti per esprimere un mondo al contrario.
Palazzolo costruisce meticolosamente l’idioletto di Adele e sfrutta la duttilità della lingua al massimo del suo potenziale.
Madre e figlia mentre giocano
Sulla base di un italiano regional-popolare siciliano, l’autore innesta dei malapropismi solo apparentemente casuali (tra i più memorabili spicca la «tele-apatia»), probabili storpiature dei tecnicismi che Adele apprende nella «ciclopedia di Agostino» (l’enciclopedia DeAgostini, scrigno del «mondo umano fatto stampato», da lei imparata a memoria nel tentativo di spiegare il dolore e il senso di colpa che sente).
Poiché coerenti con la collocazione diastratica della donna, vengono percepiti come naturali, ma sono anche in grado di schiudere mondi, magari tramite antifrasi o trasformazioni stranianti: così avviene già nel titolo della pièce, riformulazione del noto proverbio ‘se son rose fioriranno’ riconducibile a questa piccola rivoluzione linguistica soggettiva.
Proprio il titolo, infine, racchiude il contrasto tra vita e morte, e soprattutto l’idea di ineluttabilità di quest’ultima. I fiori «un poco morti» che Adele e Luisa osservano «in primo piano» dentro un quadro fittizio (forse lo stesso in cui si trovano gli alieni-spettatori) sembrano diventare simbolo dell’umanità, del reale: se nell’immaginario tutto può restare così com’è, nel mondo prima o poi tutto ha una fine.
Come scrisse Leopardi: «al gener nostro il fato / non donò che il morire» (A se stesso). E questa conclusione non è, né per il poeta di Recanati né per il drammaturgo Rosario Palazzolo, pessimista: è semplicemente vera.
Un particolare della scenografia