Un viaggio attraverso un racconto avvolto dall’aura magica dell’Oriente, dove la vendetta, la morte e l’amore si intrecciano in un connubio incantato
Un santuario di emozioni e trionfi musicali. È come si è trasformato il Teatro Massimo Bellini di Catania con la messa in scena della celeberrima Turandot di Giacomo Puccini, arricchita dal completamento del terzo atto a cura di Luciano Berio, sotto la sapiente bacchetta di Eckehard Stier e guidati dalla magica regia di Alfonso Signorini.
Appena varcata la soglia del teatro, lo spettatore è trasportato immediatamente nell’atmosfera asiatica che permea l’opera, sapientemente creata dagli allestimenti all’ingresso.
Persino il foyer del Teatro si è trasformato in una piacevole parentesi artistica, dove i costumi tipici sono esposti con maestria.
In questo spazio si trovano pure due dipinti a concorrere per creare un’atmosfera unica volta a far diventare il teatro catanese un portale per un viaggio magico in Oriente.
Possente e misterioso l’incipit di Turandot che svela il sipario su una Pechino fiabesca, alternando momenti di concitazione corale a tratti di marcia funebre.
L’arrivo della granitica principessa Turandot – interpretata da Daniela Schillaci – segna l’inizio di una intensa e metaforica danza di amore e morte condotta da Calaf, interpretato da Angelo Villari.
Una scena dello spettacolo
La storia si dipana in un susseguirsi di momenti coinvolgenti, in cui la componente visiva scorre con fluidità, in un costante movimento che non concede pause statiche.
La geometria delle masse corali segue un criterio armonioso, contribuendo a creare un tableau visivo impeccabile, dove il coro di voci bianche – diretto da Daniela Giambra – addolcisce la scena rendendola unica e preziosa.
Lo sviluppo dell’opera è caratterizzato dall’azione di figure femminili, con particolare rilievo per la schiava Liù interpretata da Elisa Balbo.
«Nulla sono… Una schiava, mio signore…», Liù, emblema di amore e umiltà, dopo aver affiancato e aiutato Timur – interpretato da George Andguladze – rivelerà al nobile Calaf la soluzione all’ultimo dei tre enigmi posti da Turandot, determinando così il destino dell’eroe «Perché un dì, nella reggia, m’hai sorriso».
Nel primo quadro dell’atto terzo tutta l’attenzione è focalizzata sull’umile e pura serva, mentre l’oscura realtà della tortura si impone come un crudele quadro di sofferenza culminando nell’atto estremo del suo sacrificio, il suicidio.
A questo punto l’opera sembra quasi arrestarsi, tutto il pubblico si trova sospeso e commosso, la morte della fedele schiava diventa un catalizzatore, sollecitando una riflessione profonda.
Una scena dello spettacolo
La sua morte sembra schiudere la gelida personalità della principessa Turandot, che si avvicina alla consapevolezza di sé e dell’amore in un intricato complesso psicoanalitico.
Questa metamorfosi è sugellata dall’arrivo della sua antenata Lou-Ling, con la quale inizia una conversazione silenziosa che prelude alla successiva arresa della principessa all’amore e al dileguarsi della «notte atroce» dalla sua mente.
Magistrale la performance di Calaf nella celebre romanza per tenore Nessun dorma, ricca di suspense e preannunciatrice dell’esito dolce amaro dell’opera.
L’atmosfera di amore-morte dell’opera è piacevolmente smorzata da Ping, Pang e Pong – interpretati rispettivamente da Vincenzo Taormina, Saverio Pugliese e Blagoj Nacoski – che si impongono come figure tragicomiche di spicco. I tre ministri della corte imperiale cinese rappresentano infatti il lato più terreno e umano dell’opera, rivelando la consapevolezza della loro subordinazione alle stravaganze della corte.
Tra momenti di commozione e di gioia, il pubblico ha accolto con un applauso finale prolungato un’opera che lo ha incantato grazie alla sua straordinaria potenza visiva, poetica ed emotiva. Il rapido esaurimento dei biglietti non sorprende, considerato l’eccezionale impatto che lo spettacolo ha avuto sulla platea.
La standing ovation alla fine dello spettacolo