Un’opera fuori dal comune, prodotta dal Festival Lirico dei Teatri di Pietra, è andata in scena nei giorni scorsi. Il regista Salvo Dolce, che ha curato questa mise en espace, spiega le sue scelte di regia
Non si è ancora spenta l’eco della strepitosa Turandot andata in scena lo scorso mese al Teatro Greco di Taormina, una produzione del Festival Lirico dei Teatri di Pietra. Lasciata incompiuta nel 1924, anno della morte di Puccini, l’opera è stata eseguita fino al punto in cui era arrivato il compositore prima della sua ultima ora. «Qui Giacomo Puccini morì», ha annunciato un altoparlante, come 98 anni fa fece Arturo Toscanini al Teatro alla Scala, nel corso della prima assoluta dell’opera.
Ma prima di arrivare alla fine, ripartiamo dall’inizio: le luci si spengono, il pubblico si acquieta, per poi esplodere in un applauso all’arrivo del direttore Filippo Arlia. Tutto come al solito, tranne per un particolare: l’orchestra si trova sul palco, alle spalle degli attori. E non ci sono pagode, né palazzi imperiali o grandi muraglie cinesi. Sì, perché il regista siciliano Salvo Dolce, che ha curato l’allestimento, dice di aver optato più per una mise en espace che per una regia vera e propria; un’operazione non del tutto semplice, come racconta egli stesso: «L’orchestra sempre presente non permette di realizzare totalmente le immagini che desideri, ma alla fine le immagini hanno restituito quello che desideravo restituissero».
La mancanza delle pagode non si è fatta sentire troppo: anzi, ha permesso di godere appieno del meraviglioso sfondo taorminese: «Nascondere con grandi scenografie un luogo magico come quello sarebbe stato un peccato» ammette il regista.
Un momento della Turandot
«L’opera tradizionale o la fai bene, il che richiede un grande dispendio economico, o non la fai», sostiene Dolce. Eppure la sua Turandot, così diversa dal solito, si fa apprezzare anche dagli amanti delle regie tradizionali, perché non è che una riduzione in valore assoluto dei concetti che stanno alla base della narrazione, senza tradire o prevaricare l’operato del librettista e del compositore: «Lavoro sull’atemporalità e sulla surrealità – spiega –, visualizzo delle immagini, parto per grandi idee e poi porto avanti un lavoro di sottrazione, fino ad arrivare all’essenziale».
Una fiaba senza tempo, è proprio il caso di dirlo. Ma anche una riflessione artistica sui valori incarnati dai protagonisti: Calaf è il sole, Turandot la luna. Il primo è vita, la seconda è morte. Tuttavia il regista ha scelto di far indossare il nero al principe impavido – interpretato da Eduardo Sandoval – e il bianco alla principessa gelida – impersonata da Chrystelle Di Marco –, perché presso la cultura asiatica il colore della morte è il bianco. Dall’inizio alla fine la scena è stata dominata da questi due colori, creando un effetto visivo di minimalismo anche sul piano cromatico, eccettuata la nota di rosso per Ping, Pang e Pong e per il Principe di Persia.
Torniamo ora al racconto di questa memorabile messinscena: nel silenzio e nel buio del grande teatro di pietra, il maestro sul podio solleva la bacchetta, ma non parte il La - Fa - Si dell’incipit, con cui un mandarino dovrebbe annunciare al popolo di Pechino che “Turandot la pura sposa sarà di chi sangue regio spieghi tre enigmi che ella proporrà”. Invece, si sente un suono di percussioni: è una composizione funebre di tradizione asiatica: «Mi è piaciuta l’idea di iniziare l’opera con questo omaggio all’arte orientale», spiega il regista.
Un momento della Turandot
Nel frattempo si vede un giovinetto dai capelli lunghi avanzare verso il centro del palco. È il Principe di Persia, che sta andando al patibolo. Poi, con un gong, comincia l’opera vera e propria, con il fanciullo in ginocchio sull'orlo del palco, il mandarino che ne annuncia l’esecuzione e il popolo che grida alla sua morte. Strano, perché il popolo dovrebbe vedere il Principe di Persia circa un quarto d’ora dopo, quando rimane folgorato dalla giovane età del moribondo, al punto da mettere a tacere la sete di sangue e chiedere la grazia a Turandot.
«Questa anticipazione è una sorta di premonizione, quasi un flashforward o un sogno», chiarisce il regista. Si tratta di un espediente attraverso cui Dolce ha voluto far risaltare il carattere camaleontico della massa pechinese: «Prima incita alla morte, poi si commuove e chiede grazia. Quindi ho immaginato questo popolo come una massa tutta uguale, che cambia repentinamente idea, anche a seconda che si trovi di fronte all’autorità oppure meno, cambiando postura e atteggiamento. Perciò li ho resi tutti uguali, tutti vestiti di nero, tutti con la calotta bianca sul capo».
Insomma, la mise en espace di Salvo Dolce è stato un esperimento riuscito, che ha permesso di non rimpiangere la tradizione e di respirare un ambiente immersivo in cui la musica potesse essere la grande protagonista. Forse la presenza dell’orchestra sul palco ha un po’ invaso le scene più intime; ma, in compenso, le luci caravaggesche e i movimenti del coro hanno rievocato le giuste atmosfere.