Piccola genealogia im-personale per ricordare i quattro giorni di laboratorio intensivo di scrittura drammaturgica, regia e interpretazione “Sull’arte di infrangersi” al Centro Universitario Teatrale con la guida di Rosario Palazzolo
Sono le 8.40 di lunedì 2 dicembre. “Diamine, tra venti minuti inizia il laboratorio di drammaturgia”. Balzo fuori dalle coperte, mi vesto in fretta e mi incammino verso il centro. Sono già in ritardo, ma Sun Tzu ne L’arte della guerra scriveva: “Conosci il tuo nemico e conosci te stesso; in cento guerre da combattere, non sarai mai vinto”.
Continuo a camminare, le dita corrono prima del pensiero e digitano sulla barra di ricerca Rosario Palazzolo: palermitano, classe ’72, drammaturgo, scrittore, regista, attore; vincitore del 18° festival internazionale del teatro di Lugano, nel 2016 insignito del Premio nazionale della critica teatrale per la sua attività di drammaturgo.
Leggo poi che dal 2023 è anche insegnante di regia alla Scuola di teatro del Teatro Stabile della sua città natale. Insomma, il “nemico” la sa lunga.
Arrivo al Centro Universitario Teatrale, entro svelta in sala. Rosario già parla. Tutti in silenzio. Mi pare un demiurgo.
Sugli spalti osservo quelli che sarebbero stati i miei compagni dal 2 al 5 dicembre, venti studenti e studentesse provenienti da diversi dipartimenti dell’ateneo che hanno scelto di cimentarsi in questo progetto.
Tra di noi noto anche lo sguardo attento di Simona Scattina, docente di Discipline dello spettacolo e referente didattica del laboratorio al Dipartimento di Scienze umanistiche dell'Università di Catania.
E' stata lei a volere Palazzolo qui a Catania, unendo le forze dell’Ateneo tramite il Cut e del centro di produzione teatrale Piccolo Teatro della Città. Dialogando con lei ho poi compreso come il suo forte desiderio si sia concretizzato nell’organizzazione di questo laboratorio, di due spettacoli al Cut e di uno al Piccolo Teatro (vai alla recensione degli spettacolo nell'articolo di Thea Faro).
Rosario legge sei tracce. Raccontano di fantasmi abbaglianti, ipocriti, zoppi, violenti. Divisi in piccoli gruppi scegliamo la storia che più sentiamo vicina. Queste tracce - ci spiega il maestro - sono dei punti di partenza per la costruzione di una “primaria”, cioè di un testo che possa essere poi portato in scena. Scrittura, regia, interpretazione: sono i compiti fondamentali di cui ci facciamo carico per realizzare sei brevi e provvisorie drammaturgie.
La scelta ricade sul monologo: forma dialogica propria di chi, mettendosi rischiosamente a nudo, cerca risposte. Ma come scrivere riuscendo a dare spazio al progetto del personaggio? Provare un’attrazione nei suoi confronti: il rapporto che si conquista con il personaggio dovrebbe essere guidato da un desiderio di conoscenza e ascolto.
Relazionarci con lui: lasciare che la sua alterità si esprima, senza calpestarla con l’ingerenza del nostro io. Immaginare il teatro come sottrazione coscienziosa: laddove vorremo spiegare tutto con le nostre parole, lasciare invece che vi sia il silenzio.
Un momento dello spettacolo Ouminicch’
“I giorni che ricordate meglio quali sono? Sono quelli del conflitto, quelli del tradimento del progetto. In virtù del fatto di essere esseri progettuali, uscire indenni non è ammesso”. Solo se c’è un progetto da poter tradire può esserci conflitto e dunque storia. A volte non capisco se Rosario ci stia parlando del teatro o della vita. Ad ascoltarlo mi sento felicemente confusa.
Progetto del protagonista / 1° movimento: conflitto / 2° movimento: azione / risoluzione: libero arbitrio, apertura.
Non faccio in tempo a ricapitolare le indicazioni nella mia testa che “la struttura non è una Bibbia e ciò che mettiamo in scena non basta. Noi siamo portatori di storie”, dice perentorio Rosario con la sua voce baritonale. La struttura può essere contestata e il racconto intimo e pregresso del personaggio, tutto ciò che viene prima dalla sua apparizione in scena, è ciò che dà vero corpo alla scrittura.
E non solo la storia si muove dialetticamente in virtù del tradimento del progetto, ma anche il meccanismo della creazione procede per tradimenti, come quello del regista nei confronti del drammaturgo.
Regia è relazionarsi sinceramente con il testo e disintegrarlo con lucida coscienza. Rosario, per farcelo capire, decide che gli scrittori, dopo aver presentato i primi abbozzi drammaturgici, devono sradicarsi dai loro testi di partenza per lasciare spazio autonomo ai registi: solo così la storia potrà essere sviscerata, lontana dalla madre che l’ha partorita.
Entra anche in gioco la visualità, in un meccanismo svizzero composto da attore, scenografia ed emozioni, tutto concertato dal regista.
Lavorando insieme, però, Palazzolo ci avverte: “Quando nella creazione si palesa un difetto che è impossibile rimuovere, non dobbiamo né nasconderlo né falsarlo. Dobbiamo esibirlo, perché la sua forza e la sua qualità appartengono alla sua intrinseca debolezza”.
Nella scrittura registica, dunque, si lavora sinergicamente per trovare una qualità interna alle cose, non perfezione ma concretezza, una sintesi non vuota ma incessante.
“Dai, facciamo una pausa”. Nei momenti di stacco mettiamo piede fuori e Piazza Università sembra respirare un’aria diversa da quella nostra, tutto fluisce come deve. Abbiamo giusto il tempo di prendere un caffè nel bar all’angolo sinistro.
Mentre una nuvola di tabacco abbraccia le nostre chiacchiere di conoscenza noi sembriamo come sospesi, perché la magia di ciò che sta accadendo dentro il CUT non svanisce, neanche quando usciamo fuori dalla sala.
Ma giorno 5 arriva presto. La mia collega Giovita Piccillo mi lascia in dono le sue parole: incanto, sogno, coro, ricchezza. “È stato bello vivere per quattro giorni sospesi come figurine di Chagall, accompagnati da un maestro vero della nostra terra di Sicilia”.
I vestiti, i pochi oggetti di scena procacciati, un unico camerino gremito di ragazze che si incipriano, si vestono.
Gli interpreti recitando danno vita agli sguardi melanconici e un po’ “schizzati” dei nostri personaggi infranti, e noi registi e scrittori fuori dalla scena sembriamo aver capito: tutto ciò che siamo riusciti a immaginare non è più solo idea, ma si è concretizzato davanti al nostro “pubblico qualsiasi”. Rosario osserva insieme a noi i risultati e ci dona i suoi commenti finali, di cui raccogliamo il frutto. E ci interroghiamo.
Un momento dello spettacolo "Letizia forever"
Sulle possibilità possibili, sulle omissioni, sulle scelte prese e su ciò che è stato e su ciò che si potrebbe essere, ma comunque fuggendo dalle morse dell’esaustività e dell’autocompiacimento. “Il teatro è una camera dei sogni” - tre pareti nere, aperte verso il non si sa cosa – “abbiamo solo questo”, ci dice Rosario.
’U masculu – È attìpo un gioco, il Mi ricordu, un gioco serio, un gioco ca serve per ricordàrisi fatti veri del passato, e del resto a questo servono le cirimonie.
’A fimmina – A che?
’U masculu – A ricurdàrisi la verità.
[dialogo tratto da A’ Cirimonia]
A’ Cirimonia lo vediamo il sabato con alcune compagne di laboratorio, forse è l’appuntamento con cui abbiamo deciso di non dirci “addio”. Ma arriviamo alla conclusione che di questo spettacolo portato in scena da Rosario non dovremmo parlare. Proferire parola su ciò che abbiamo appena visto svilirebbe la sacralità delle verità che ognuna di noi si porta dentro. La verità è un po’ troppo complessa. E allora uscite dal Piccolo Teatro condividiamo un intimo silenzio.
Dialoghiamo, invece, di ciò che abbiamo vissuto in questa settimana, ci chiediamo tra noi cosa proviamo dopo la fine di questo breve ma intenso percorso.
“Tutto quello che abbiamo costruito in questi giorni, al di là del fatto che fosse utile per la scrittura o per la regia, è ritornato su di noi, su chi ha vissuto umanamente questa esperienza”, dice Ludovica Ferrante. E lei ci ricorda anche, insieme a Giada Pagliari, di una frase che è rimasta impressa nelle menti di tutte: “Il teatro è finto, ma mai falso”.
Arianna Pedone invece si ricorda di una provocazione lanciata da Rosario: “Perché utilizzate tanti fronzoli nelle vostre risposte, nei vostri testi? Ve lo dico io, perché vi compiacete”. Ciò che abbiamo compreso è che nella fase di scrittura bisogna “burlarsi” della propria compiacenza. Abbiamo riflettuto sull’ingerenza che dimostriamo nel voler puntualmente “completare e quindi giustificare” a parole le nostre scelte: cosa accadrebbe se invece smettessimo di mostrare sempre tutto al pubblico, se lasciassimo all’altro la libertà di cogliere e di capire, in ciò che creiamo, qualcosa di totalmente diverso? “Cosa vorrà dire la verità in scena?” ci chiediamo insieme, lasciando la domanda ancora irrisolta.
È tardi e sono ritornata. Penso di sentirmi come A’ Fimmina di A ‘Cirimonia: “…di tutti sti Siamo, non mi ricordo manco un Siamo”.
Forse ho capito qualcosa, ma non riesco a sputarla fuori. Ci ripenso. Mi ricordo di un saggio di Foucault, Theatrum Philosophicum. «Come distinguere fra i tanti falsi (simulatori, millantatori) e il vero (il puro, l’incontaminato)? Non inventando una legge del vero e del falso», perché «la verità non si oppone all’errore, ma alla falsa apparenza».
Di errori in questa settimana ne abbiamo fatti, di “tradimenti” pure. Abbiamo plasmato con Rosario un gioco corale senza presunzione di completezza, con la sola volontà di votarci alla possibilità. Epifania: mi dico che mai c’è stata settimana più vera di questa.
La video intervista a Rosario Palazzolo
Intervista di Thea Faro, riprese e montaggio Dario Grasso e Giorgio Raito