A RetroScena “Se son fiori moriranno”

Il drammaturgo e regista Rosario Palazzolo e le attrici Simona Malato, Chiara Peritore e Delia Calò hanno presentato al Cut lo spettacolo andato in scena al Piccolo Teatro della città 

Elisabetta M. T. Santonocito (foto di Dino Stornello)

A poche ore dalla prima catanese dello spettacolo Se son fiori moriranno il drammaturgo e regista Rosario Palazzolo e le attrici Simona Malato, Chiara Peritore e Delia Calò hanno dialogato con Simona Scattina, docente di Discipline dello spettacolo al Dipartimento di Scienze umanistiche, davanti a una platea di curiosi cittadini e di giovani studenti e studentesse accorsi numerosi al Centro Universitario Teatrale per l’appuntamento di RetroScena.

Il palermitano Rosario Palazzolo è una figura complessa all’interno della scena teatrale contemporanea. Sabotatore o, meglio, «auto-sabotatore», come si è spesso definito, nelle sue pièce innesta il dubbio e dà spazio all’immaginazione, abbraccia il fallimento e si impegna nel portare al pubblico qualcosa di sé grazie a testi dalla rara potenza. Ne è un esempio Se son fiori moriranno che, insieme a Ti dico una cosa segreta, costituisce il Dittico del sabotaggio.

L’immaginazione, che accende il dubbio, nega e impedisce di mettere a fuoco e comprendere appieno la realtà, per Palazzolo rappresenta l’unica alternativa per sopravvivere alla vita e camminare in equilibrio sul confine che separa i due mondi. Palazzolo è dotato di un multiforme ingegno e, alla scrittura, affianca altre sfaccettature della sua stratificata e variegata personalità, in particolare il Palazzolo-regista e più raramente il Palazzolo-attore.

Si tratta di attività diverse, ma complementari che bisogna mantenere separate e in equilibrio tra loro, soprattutto nel caso della scrittura drammaturgica e dell’attività registica. Mantenendo una dicotomia netta e irriducibile, Palazzolo lavora nel rispetto di entrambe convinto che «bisogna fare in modo che il Palazzolo-regista non abbia la presunzione di saperne di più del Palazzolo-drammaturgo».

Simona Scattina, Rosario Palazzolo, Simona Malato, Delia Calò e Chiara Peritore

In foto da sinistra Simona Scattina, Rosario Palazzolo, Simona Malato, Delia Calò e Chiara Peritore

Anche confrontandosi con testi di altri autori, il suo rispetto nei confronti di chi ha creato un immaginario rimane invariato. Il suo compito come regista non è imporre dall’alto le proprie scelte, ma favorire il dialogo e promuovere l’instaurarsi di relazioni profittevoli, genealogie orizzontali che permettano all’opera di venire alla luce: infatti, «l’arte stessa nasce dalla relazione».

Quest’ultimo termine rappresenta un suo fil rouge imprescindibile e, come l’arte, anche le sue creature nascono dalla relazione o, meglio, da più di una.

Particolarmente significative si rivelano quelle instaurate tra Palazzolo e attori/attrici – carne viva per i suoi personaggi e le sue personagge – e tra Palazzolo e le timide figure che gli si presentano alla mente e che lui deve rendere indipendenti da sé, permettendo loro di avere vita propria e di sopravvivergli, affermandosi prepotentemente nella mente di spettatori e spettatrici di ogni epoca.

Affinché il suo processo creativo possa iniziare, però, Palazzolo ha bisogno di innamorarsi dell’attore/attrice, di ancorarsi alla sua individualità fisica, di ‘sentirne’ la carne, solo così può pensare di donarle qualcosa. Mentre le idee si affollano nella mente del drammaturgo, in lontananza comincia a comparirgli il personaggio.

Piano piano si avvicina a lui per vederlo e conoscerlo meglio e cerca di far avvenire il «miracolo dell’indipendenza»: deve essere il personaggio a dargli notizie e soprattutto ad essere indipendente da lui al punto da sopravvivergli nel tempo.

«Se Palazzolo, con le identità che porta e che ha costruito, riuscisse a sparire dentro le voci, i pensieri, le azioni e le vite di questi personaggi, facendo emergere proprio l’umanità che questi testi portano alla luce, ecco quello sarebbe lo sbocciare della mia carriera» afferma.

Un momento dell'incontro

Un momento dell'incontro

Donando parti di sé ai propri personaggi, l’autore spera che possano avere una dignità maggiore della sua e che i posteri possano conoscerli e comprenderli, anche più di quanto non abbia fatto lui.

Personaggi e personagge, al di là dei limiti e dei confini stabiliti, si collocano a metà tra poli opposti, nutrendosi di entrambi: «essendo interessato molto al concetto di individuo nella sua forma identitaria, molto spesso i miei personaggi sono ibridi, sono una compartecipazione tra i generi».

Ed ecco quindi che Salvatore Nocera diventa Letizia, un energumeno dall’incredibile femminilità, mentre Simona Malato è Adele, un gigante dalle forti mascolinità e potenza racchiuse nel corpicino esile della sua interprete.

Palazzolo esplora le potenzialità e le suggestioni fornite da questi contrasti e accostamenti improbabili, dimostrando che dietro una natura formale, dietro l’apparenza, c’è una ricerca da fare per giungere alla sua essenza e profondità.

«Per fare questo il teatro gioca un ruolo fondamentale, perché grazie ai personaggi e grazie a tutte le relazioni, [permette] di andare a fondo, fino a farti male – racconta il regista -. Il mio è un tentativo di raccontare l’umanità come incontro continuo, disperato, fallimentare, epifanico fra tutti i nostri generi che sono interiori. È un gioco di contrasti. In fondo, cosa sono il femminile e il maschile? Sembrano slogan, manifesti. Per condurre le battaglie occorre molto spesso usarli, ma io non faccio battaglie, faccio teatro».

Tra le sue povere creature, Adele è sicuramente una di quelle che hanno iniziato con successo il proprio percorso di emancipazione. La storia di Adele provoca stress e allo stesso tempo dona conforto; è una carezza ma anche un pugno allo stomaco per lo spettatore.

In foto da sinistra Simona Scattina, Rosario Palazzolo, Simona Malato, Delia Calò e Chiara Peritore

In foto da sinistra Simona Scattina, Rosario Palazzolo, Simona Malato, Delia Calò e Chiara Peritore

A interpretarla è l’attrice Simona Malato, che ha raccontato il suo speciale e personalissimo incontro con lei e le sfide affrontate per portarla in scena. Attraverso un lavoro di «incorporamento», invasamento e grazie al dialogo ininterrotto con lei, è riuscita a liberarsi da ogni vincolo e costrizione: si è aperta completamente alla relazione con Adele e le ha permesso di entrare in lei, di fluirle dentro.

Proseguendo, poi, il cammino insieme, Malato si è lasciata guidare dal suo personaggio, si è fidata e affidata e Adele l’ha portata a conoscere un altro aspetto del mondo, le ha insegnato l’arte della resilienza, il saper porre un contrappeso al dolore anche quando sembra che esso stia avendo la meglio.

La centralità di Adele è indiscutibile nella vita e nella costruzione degli altri personaggi, ma anche nel lavoro e nella composizione stessa della squadra che ha messo in scena Se son fiori moriranno e Ti dico una cosa segreta. «Tutti siamo un po’ partiti e tornati ad Adele» spiega Peritore che, per interpretare il suo ruolo, ha dovuto prima comprenderla e chiedersi fin dove arrivasse la sua autonomia: «Luisa è un simulacro e parte da Adele, il suo innesco è Adele».

Similmente legato a lei è il personaggio della psicologa, una voce over – ma allo stesso tempo una presenza corporea molto forte – restituita da Delia Calò, che conduce, aiuta e sostiene Adele affinché possa superare il dolore che la tormenta o, per lo meno, imparare a viverlo meglio.

La sua storia, sviluppatasi in Se son fiori moriranno, dovrebbe trovare il suo compimento nel secondo spettacolo del dittico, Ti dico una cosa segreta, ma siamo sicuri che sia davvero così? 

«Sia in Se son fiori moriranno sia in Ti dico una cosa segreta ci potrebbe essere un’altra possibilità» spiega Calò. Adele ha proseguito il suo racconto, ha sviscerato ancor di più il suo dolore mostrandolo al pubblico, e, se per le attrici questa ‘conclusione’ è stata necessaria anche per la ripresa del primo spettacolo, non tutto il pubblico si è mostrato concorde nel considerarla la giusta conclusione/prosecuzione, rimanendo turbato o addirittura infastidito dalla visione del secondo capitolo.

Rosario Palazzo e Simona Malato

Rosario Palazzo e Simona Malato

A proposito del pubblico, anche gli spettatori entrano nel gioco teatrale creato da Palazzolo. Adele, infatti, ha un ‘teatro nella testa’ e ha il coraggio di affrontare gli spettatori di quel teatro, che siamo noi nel momento della messa in scena. Quindi, di fatto, si rivolge direttamente al pubblico, penetra con lo sguardo nell’oscurità e scruta a fondo le anime di chi ha di fronte.

Si tratta di una precisa volontà del drammaturgo Palazzolo, che intrattiene una particolare relazione con lo spettatore.

«L’arte nasce dalla relazione» spiega, «una relazione tra chi la fa e chi la ‘subisce’, affinché, poi, avendola subita, la possa dipanare nella propria realtà, nel proprio vissuto in mille modi possibili. Il teatro, l’arte, ti dà la possibilità di assumerti responsabilità».

La riflessione di Palazzolo si lega al concetto di pubblico e alla sua evoluzione nel corso degli anni.

Se prima questo coincideva con un’idea di passività e prevedeva inizialmente un atteggiamento di silenzio e di ascolto e solo successivamente la possibilità di una relazione con l’altro, oggi a predominare è la condizione di essere pubblico (dei social, in televisione, a casa) diventata uno strumento di prevaricazione e violenza.

«Il pubblico è attivo, cambia i canali, decide di mettere stop quando un regista non l’aveva deciso, decide se quel prodotto, perché ormai purtroppo è un prodotto, o quell’atto artistico merita di essere visto – spiega il regista -. Questa violenza e questa presunzione lo spettatore se le porta a teatro. Allora, da autore, da regista, come devo pormi? L’unico modo è far credere al pubblico che ha un valore, che può intervenire. Il mio è un tentativo di fare in modo che il pubblico abbia la responsabilità vera di poter intervenire e non quella fallace dell’essere consumatore, di poter incidere nell’opera anche facendola fallire».

E Palazzolo lascia la parola o, meglio, l’azione al suo pubblico: lo invita a prendere coscienza di sé, gli chiede di assumersi la responsabilità dei suoi comportamenti, ma soprattutto di imparare a curare le relazioni, di cui la vita, come il teatro, si nutre.

Studenti, docenti, attori e regista a conclusione dell'incontro

Studenti, docenti, attori e regista a conclusione dell'incontro