Claudio Fava, autore e regista della pièce, e l’attore David Coco, hanno incontrato il pubblico del Piccolo Teatro della Città
Qualche ora prima dell’ultima replica catanese de La grande menzogna si aprono le porte del Piccolo Teatro della Città per accogliere il pubblico accorso all’appuntamento di RetroScena 2024, il ciclo di approfondimenti sugli spettacoli in cartellone al Teatro Brancati e al Piccolo.
Al suo debutto come regista, Claudio Fava racconta alla professoressa Simona Scattina, docente di Discipline dello spettacolo all’Università di Catania e moderatrice dell’incontro, come nasce questo spettacolo.
«Ho sentito l’esigenza di non fermare il racconto della storia e della vita di Paolo Borsellino a quel 19 luglio del 1992, che tutti ricordiamo e che è il giorno di una commemorazione con la quale crediamo di espiare le nostre colpe», ha raccontato il regista.
Un’operazione di ricerca che, da ex presidente della Commissione Antimafia della Regione Siciliana, Fava ha potuto svolgere intessendo al ruolo istituzionale quello di scrittore e drammaturgo: «Ho lavorato a circa 200 pagine. Tutti atti pubblici che contengono le testimonianze dei personaggi di quell’evento. I loro ricordi, le parole dette e quelle dimenticate. Ho cercato di dare voce alla storia che è rimasta sotterrata e che riguarda quello che è successo dopo la strage, ovvero l’inchiesta, i depistaggi, gli interrogatori su cui come presidente della Commissione Antimafia mi sono trovato a lavorare».
Lo spettacolo arriva a Catania, dopo il debutto al Teatro di paglia di Tindari lo scorso anno, in una veste nuova: «Ho inserito due momenti nuovi, il primo è uno sviluppo che sentivo necessario, quello in cui Paolo Borsellino immagina di parlare con i figli».
«Un momento più intimo, ma non dolente, che in qualche modo appaga il bisogno di quest’uomo, che dal suo “limbo” ha visto la solitudine dei figli e il loro bisogno di continuare a fare domande per capire cos’è accaduto, ottenendo risposte sfumate, reticenti - racconta Fava -. E poi un altro snodo che ha a che fare con il processo per depistaggio, una finzione nella finzione».
«Un processo svolto 28 anni dopo la strage e che si è concluso con la prescrizione dei tre imputati minori, di cui nessuno conosce i nomi - ha aggiunto -. Quando i veri protagonisti di questa vicenda, che incontriamo nello spettacolo, erano già morti. Un processo in cui si sarebbero potute recuperare alcune verità e che invece è stata un’altra farsa».
Da sinistra Simona Scattina, Claudio Fava e David Coco
La grande menzogna (vai alla recensione) è quindi un racconto di più voci ma con un solo personaggio in scena.
«Ci sono i manichini – dice Fava e li indica, sul bordo del palco, ammassati quasi senza forma aspettando di prendere vita all’ormai imminente chi è di scena – sono loro gli altri personaggi, come pupi manovrati da un puparo. Quei manichini rappresenteranno, di volta in volta, tutti gli attori di questa storia, ma il vero punto non sono i personaggi. Il punto siete voi», e ci guarda.
Il punto siamo noi? Chiede per sé e per tutti i presenti la moderatrice dell’incontro, Simona Scattina, e in quei brevi attimi, tra la domanda e la risposta, ci muoviamo sulla nostra poltroncina come se cominciassimo a sentire un impercettibile fastidio, quello della colpa: «Si, voi, noi, il pubblico – risponde il regista – quelli che si sono accontentati di una verità, che hanno smesso di dubitare, che non si fanno più domande. David Coco, nelle vesti di Paolo Borsellino si rivolge spesso al pubblico, lo addita, dalla sua dimensione astratta, come un limbo dal quale invoca una degna sepoltura che non sia figlia del martirio o dell’eroismo ma della giustizia».
Ed ecco che la luce si accende sull’altro protagonista dell’incontro, l’attore catanese David Coco che qui interpreta Paolo Borsellino. Noto al grande pubblico non solo di teatro ma anche di cinema e televisione, Coco ha stretto con Fava un sodalizio artistico già lungo e proficuo, che adesso si arricchisce di un ulteriore elemento, quello della regia.
«Claudio è un regista informato sui fatti – racconta Coco – e non è sempre detto che sia così. E poi è disposto ad aggiustare qualcosa, a rivederla, mette a proprio agio. Riesce a mantenere con l’attore un dialogo aperto, sia da autore che da regista».
Poi con tono divertito aggiunge: «Come autore ha una caratteristica che lo differenzia da quasi tutti gli alti: non ha bisogno di essere morto per poter mettere in scena le proprie opere!».
Un momento dell'incontro
Un pubblico “conoscitore”, che sa quanto sia complesso lavorare con autori viventi, ride alla battuta di Coco, che ci mostra la loro complicità nonché un’importante punto a favore di questa collaborazione sincera e proficua.
Un sodalizio che appare destinato a durare: «È il quinto spettacolo che faccio con lui – sottolinea l’interprete – e, secondo me, non è un caso che lo spettacolo che feci alla fine del mio percorso di formazione alla scuola dello Stabile fu Ultima Violenza di Pippo Fava. Uno spettacolo che adorai. Erano quelli i personaggi che mi piacevano, le storie che avrei voluto raccontare. E poi i sodalizi aiutano molto, sono una spinta di libertà e si crea un’empatia che è utilissima per riuscire bene».
È sempre interessante, in un lavoro di grande attualità come La grande menzogna che vede coinvolti non solo addetti ai lavori ma persone che in presa diretta hanno vissuto quella vicenda, capire che tipo di approccio si ha con la materia trattata.
«Da siciliano – spiega Coco – nella creazione di questo personaggio mi sono tornate in mente tante cose. Una in particolare: quando arrivò la notizia della morte del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Mi trovavo a Zafferana, in piazza, era piena di gente che parlava, di chiacchiericcio, e all’improvviso un silenzio surreale. Ero un ragazzino e non avevo idea di chi fosse Dalla Chiesa ma ricordo il silenzio, la partecipazione. Sentii il cambiamento, l’empatia di tutti. Era accaduto qualcosa che apparteneva a tutti noi. Sono cose che rimangono dentro, anche se non sai bene cosa siano».
Anche Fava drammaturgo parla dei suoi modelli. «Ne L’Istruttoria di Peter Weiss il modo in cui la realtà irrompe sulla scena e diventa teatro è stato per me una forte sollecitazione - spiega -. Ma anche i lavori di Shakespeare sono formativi, perché colgono della grande vicenda umana alcuni macro-temi che poi ritrovi sempre. In generale a ispirarmi e guidarmi è la voglia di guardare oltre il mondo schematico e indottrinato di cui ci accontentiamo. Mi interessa guardare dall’altra parte dello specchio. Cercare altre verità possibili. Scrivere non è un servizio, non è dare un’informazione. Attraverso i miei personaggi cerco di capire quali sono le dinamiche che stanno dietro ad alcune cose».
I manichini-pupazzi
Arrivato il momento di tirare le somme dell’incontro e Simona Scattina domanda a Claudio Fava: "Com’è fare il regista?"
«Mi piace l’importanza che viene data dall’attore alla parola scritta - risponde -. La scrittura è fatica, è scelta, è ricerca del dettaglio, del suono giusto. Da regista mi piace il lavoro che l’attore compie nel fare propria la temperatura, l’accento del testo. La corrispondenza tra il messaggio che lo scrittore vuole dare alla parola usata e quella che l’attore raccoglie. Non sempre si arriva a una sintesi, ma è divertente e credo sia la cosa più affascinante del fare teatro».
Si impone nella voce e nello sguardo di Claudio Fava una necessità tanto del suo essere autore quanto regista, una necessità che non tarda a esplicitarsi: «È l’esigenza di rispondere a nuove domande che mi spinge a scrivere. È cercare di mettermi dall’altra parte, in ascolto, per comprendere e andare oltre la narrazione “buoni contro cattivi”, “giusto contro sbagliato”. Vado alla ricerca delle sfumature che rendono la vita molto più complessa di quanto sembri».
Un teatro dalla specifica connotazione civile quello de La grande menzogna, un teatro che non è semplice narrazione ma che inizia proprio là dove la narrazione si ferma.
«Cerco di raccontare la vita di questi uomini, perché sono esempi: a me fa senso l’ostentazione, l’esibizione. Io penso a Paolo borsellino, penso a questi uomini che sapevano di camminare su un filo, e penso alla loro dignità, al loro pudore», racconta il regista.
«Alcune volte c’è una sorta di “pornografia” quando si parla della condizione di certi personaggi o dei rischi che corrono nel tentativo di costruirsi un’immagine, forse anche una carriera. Io non ce la faccio più – conclude con sincera insofferenza Fava – perché penso a chi ha attraversato la vita faticosamente, sapendo che fuori aveva una matrice di odio costruita attorno, affrontandola con dignità. Di questo dobbiamo avere solo un grande rispetto, e ricordare il modo in cui queste persone sono vissute, non quello in cui sono morte».