Il regista Francesco Torrigiani racconta il “volto” dell’opera belliniana in scena al Teatro Vittorio Emanuele di Messina
All’interno del Bellini International Context, Norma è la seconda opera in cartellone e andrà in scena il prossimo 27 settembre al Teatro Vittorio Emanuele di Messina, delineando la forza sinergica tra i teatri siciliani.
Al regista, Francesco Torrigiani, intervistato da UnictMagazine, il compito di consegnare al pubblico l’opera come Bellini l’ha scritta. Norma (vai all'articolo sullo spettacolo), che a più riprese è entrata nella vita professionale del maestro Torrigiani, sarà raccontata attraverso un affondo nei valori umani servendosi degli aspetti più simbolici della nostra terra di Sicilia che fanno incontrare terra e cielo, fuoco e roccia e nei quali ogni spettatore avrà lo spazio di costruire il proprio affondo narrativo grazie all’indefinitezza del tempo in cui si svolge l’azione scenica. Un affondo sui valori, sul recupero della propria identità, del tempo del rapporto con l’altro.
Quali sono gli elementi interpretativi del testo, del libretto, della composizione che in quest'opera di Norma sono imprescindibili e che, come oggetto di analisi, metterà in campo nella rappresentazione?
«A partire dal fatto che si tratta di operare un tradimento, come potrebbe dire in altri ambiti Gramsci, per tradire il testo si ha il dovere morale di conoscerlo fino nei più minimi dettagli. Io credo che per chi fa regia, sia necessaria la severità etica, lo scavo dell’oggetto da tradire, lo strumento primario con cui si deve leggere un’opera», spiega il regista.
«Con l’opera di “Norma” è nata la mia collaborazione 32 anni fa con Tiezzi, è stato il testo che io con cui ho vinto il concorso a cattedra del Conservatorio – continua –. L’ho fatta diverse volte nella edizione del mio maestro, a cui devo, in questa lettura Messinese anche molti aspetti; poi l’ho rifatta con il maestro Oren al Teatro Verdi di Salerno e posso dire, senza presunzione che è un testo che conosco bene e di cui ho scovato degli elementi ben precisi. Innanzitutto un lato tragico, quasi classico direi, con riferimento alla Medea (ci sono delle citazioni euripidee nel testo), ma anche un aspetto profondamente umano che è nell’anima di Bellini».
«Norma si distingue per molti aspetti dai personaggi primari femminili di Bellini ma alcuni li conserva. Nello spettacolo che metto in scena, il lato tragico classico è affidato a un impianto globale dello spettacolo, anche se poi le immagini che vedremo non hanno molto a che vedere con le foreste della Gallia transalpina; l'aspetto, invece, che ho voluto mettere in luce è il dolore di un animo femminile, capace di annichilire sè stesso in nome di un errore o di una scelta infelice della propria esistenza – aggiunge –. Ho cercato di rendere questo dolore nella recitazione degli attori: ho chiesto alle due donne protagoniste di condividere insieme un animo femminile capace di assumere su di sé il dolore causato da un avvento ‘mascolino’ nella loro esistenza; ai protagonisti uomini, invece, di rappresentare questa volitività incosciente in termini di relazione con l’altro genere che, a mio avviso, è scritta da Bellini nella musica delle parti».
Che Norma vedremo, quindi? Una versione attualizzata o tradizionale?
«Spero che non vediate nessuna delle due. Penso che la dicotomia tradizione-attualità non debba più essere all’ordine del giorno. Ritengo che lo stile delle regie degli ultimi vent’anni che hanno dato magnifiche prove di sé, che tendevano ad una 'contemporaneizzazione’ dello spettacolo, abbiano esaurito la loro spinta propulsiva», ci tiene a precisare.
«Quello che si vedrà in scena, ed il motivo per cui questa rappresentazione viene messa in scena, ha dei riferimenti, specifici e ben precisi, alla terra di Sicilia, alla terra che ha generato l’autore che ha generato la partitura che è anche lo stesso autore al centro dello stesso festival – continua –. Pertanto il riferimento artistico che ho chiesto alle mie collaboratrici, non è un caso che siano tutte donne, da una parte vuole un link all’elemento barbarico che nella Medea di Pasolini è raccontato in maniera sublime, dall’altro un riferimento alla terra di Sicilia filtrato, in qualche modo, attraverso gli occhi di Burri e dei suoi ‘cretti’. La comunità arcaica, primitiva, barbara di Medea è totalmente avvolta e oppressa da una natura essenzialmente lavica sia negli elementi naturali, come la foresta, che negli elementi antropizzati (sedute, mobilio, arredamento degli interni). Questa comunità barbarica, collocata in un tempo indefinito, con un sapore e una cromaticità mediterranea più che gallica, i cui colori riflettono i toni del cielo e del mare della Sicilia, è immersa nella dimensione naturale e da questa trae energia. In questa comunità penetra come un elemento completamente estraneo, visibilmente diverso, contemporaneo, attraverso gli abiti di Pollione, di Flavio e del suo plotone di difesa e rappresentano la civiltà evoluta, tecnologica, moderna, una civiltà ‘occidentale’. Tutto questo è immerso in alcuni segni appartenenti alla civiltà romana».
«Si tratta, quindi, della contemporanea lotta tra natura e storia, tra comunità arcaica e comunità moderna. Non ci sono, però, riferimenti diretti o specifici all’oggi, non c’è uno spostamento di tempo; questa è una mia scelta perché lo spettatore possa vivere la penetrazione dentro la storia ma senza ancoraggi interpretativi dovuti alle scelte registiche, permettendo di godere il teatro come luogo dell’interrogativo, in cui lo spettatore può dire la sua – aggiunge il regista –. Strehler diceva che il teatro è oggi quello che era per i suoi fondatori, un luogo nel quale una comunità liberamente si riunisce per ascoltare una parola da accogliere o respingere. Il teatro, per me, deve essere suggestivo, interrogativo, ambiguo perché un luogo nel quale sì la comunità si riconosce ma nel quale ha la libertà di rifiutare ciò che vede. Con Norma, il tempo della narrazione è talmente lontano che diventa più semplice l’astrazione dei valori in gioco che troviamo nel conflitto di genere, nel conflitto di intendimento di civiltà, di pensiero della civiltà, nella maternità, nella paternità, nell’amicizia spirituale di genere tra donne. Ci sarà anche un’immagine, all’interno dello spettacolo, con un forte riferimento ai giorni nostri e che riguarda il sacrificio femminile».
Quanto ci entra la tecnologia in questa regia?
«Mi diverte molto, specialmente in questa Norma, cercare di far dialogare gli elementi che, ormai, sono tradizionalmente in gioco, il costume, la scenografia e video proiezioni assieme alle luci. Come videoproiezioni userò, nella maniera più simbolica possibile, degli elementi fotografici naturali che alla fine risulteranno paradossalmente ancor meno realistici di quanto l’impianto scenico sia suggestivo e simbolico: avremo delle lune molto fotografiche che saranno soltanto un elemento di simbolo, non avranno nessun orpello paesaggistico», spiega il regista.
«È chiaro che essendoci questo riferimento ai cretti lavici di Burri, il rogo, alla fine, è un bagno in una immensa eruzione lavica. Nel momento in cui ho pensato di fare, per il pubblico siciliano, una Norma un po’ più siciliana e considerato che niente c’entrava la sicilianità del sole, allora diventava una sicilianità della notte, della terra, del nero della lava che diventerà il buio di questa tragedia e al tempo stesso il fuoco, l’eruttività siciliana contenuta dall’elemento lavico», precisa Torrigiani.
Cosa direbbe per invitare il pubblico a venire a vedere Norma?
«Vorrei citare la prima scena, non tagliata, di C’era una volta in America di Sergio Leone – spiega –. Una sequenza fatta di innumerevoli squilli di telefono. È una scena lunghissima in cui si sente solo suonare il telefono e lui, il regista, a mio avviso, mette quella sequenza all’inizio del film per tastare il metronomo dello spettatore».
«Da quel punto in poi quel film, che è lunghissimo, appare straordinariamente godibile, quasi corto. Questo effetto è dato proprio da quell’inizio che impone allo spettatore un metronomo diverso. Al pubblico di oggi, che essendo normalmente abituato a strutture narrative di pochi secondi (da Tiktok a varie piattaforme social), pongo l’invito a venire all’opera e auto-inserire un metronomo diverso. Il tempo è una variabile non indipendente, il tempo determina un certo tipo di qualità di messaggio, il tempo determina un certo tipo di qualità dell’emozione nella vita degli uomini – continua –. L’opera non può essere più breve di quella che è. Forse le nuove generazioni possono avere il desiderio di scoprire una emotività che si dilunga su, per esempio, un intendimento di sottotesto per quaranta secondi».
«Questa lentezza unita alla grandiosità di strutture (orchestra, cori, voci iperfoniche) danno la possibilità ad uno spettatore che ha calcolato se stesso su quel tempo, di viverlo diversamente – precisa –. Consiglio a chiunque non sia abituato all’opera di chiedere con precisione la durata di ogni atto; quando si annoierà guarderà l’orologio e si rimetterà, con il suo metronomo, a seguire lo spettacolo. È vero che nell’opera ci sono dei momenti di lentezza ma se lo spettatore, più che interessarsi alla storia, ai contorni culturali di questa, si concentra sulla durata, si voterà a quel tempo nel quale è chiamato a vivere un’emozione drammatica e, man mano imparerà a vivere il tempo nella sua profondità».

Francesco Torrigiani
Ma chi è Francesco Torrigiani?
«Livornese, figlio di un matematico e di una scultrice ed insegnante di storia dell’arte. A me fa piacere ricordare che mio padre era un azionista, fondatore della sezione livornese del partito dell'azione, anche se lui non era di Livorno; mia mamma, invece, era figlia di un medico terziario francescano. Nella mia formazione di uomo contano moltissimo i valori tradotti da un certo tipo di interpretazione pratica della religione cattolica - sebbene non sia praticante e abbia nei confronti della fede un atteggiamento estremamente personale e problematico - e i valori, invece, di un socialismo liberale», racconta.
«Una formazione che si ferma, da un punto di vista degli studi non specialistici, alla maturità classica e che invece ho concluso dal punto di vista musicale con un diploma di fagotto nella mia città – aggiunge –. Ho iniziato la mia carriera artista come musicista, come fagottista in orchestra, in musica in camera, come solista e ho approcciato il teatro soltanto nella maturità iniziando dal teatro musicale, nel cui ambito credo di aver svolto tutte le professioni possibili: il maestro di palcoscenico, il maestro delle luci, la direzione di scena, la direzione di produzione».
La sua esperienza al Teatro Pitruzzelli di Bari?
«Alla fine degli anni 80, come direttore di scena, ho iniziato la mia parte professionale più importante al teatro Petruzzelli di Bari. Lì ho conosciuto i lavori dei più grandi registri di quell'epoca come Dario Fo, Pierluigi Samaritani, Mauro Bolognini soprattutto che mi ha insegnato a fare il regista perché per primo ho montato un suo spettacolo, una sua Aida, nella seconda metà del 900 con scenografie di Mario Ceroli. Il Teatro Petruzzelli bruciò. Quella sera lasciai il teatro dopo aver smontato uno spettacolo e sarei stato di nuovo lì la mattina seguente, ma il teatro non c'era più. È stato un trauma che però mi ha insegnato tantissimo del valore del teatro, della funzione del teatro e di quanto un teatro sia importante per una comunità, per la sua maturazione e crescita spirituale della comunità», racconta il regista.
«Dopo questa difficoltà che ha considerato per me un primo ostacolo, per fortuna sono riuscito ad avere altre occasioni professionali – continua –. Tra queste soprattutto dopo l'occasione, nelle settimane precedenti all'incendio al Petruzzelli, con Federico Tiezzi (ricordiamo che l'ultimo spettacolo dato al vecchio Petruzzelli fu proprio Norma di Federico Tiezzi). Da quella data io ho iniziato una collaborazione continuativa con Tiezzi, dapprima per i suoi debutti in lirica – aveva debuttato con Norma - e poi anche per la prosa, fino a che a fine anni 90 il Teatro dell'Opera di Roma, con sovrintendente Sergio Escobar, mi ha chiamato a fare il Segretario artistico di quel teatro. In questo ruolo, per poco meno di due anni, ho avuto la possibilità di misurarmi come manager di una grandissima istituzione con artisti di primissimo livello. Un'esperienza professionale molto usurante ma altrettanto formativa e determinante».
Ha iniziato la sua carriera come musicista, poi ha intrapreso la strada per la regia d’opera. Perchè?
«La relazione carnale col fatto musicale, che è uno strumento, in particolare uno strumento a fiato, mi manca ancora adesso. Ma non mi sono pentito della scelta, conscio del fatto che il mio essere un'artista/musicista sarebbe stato al massimo identificabile come essere un buon professionista di una medio-buona orchestra italiana dove le occasioni di un lavoro particolarmente appagante dal punto di vista artistico sarebbero stati abbastanza saltuari e soprattutto indipendenti dalla mia volontà. Poi il fatto scatenante fu un concorso per suonare in un'orchestra», spiega.
«Per partecipare al concorso, che era lontano da Livorno, feci circa tre ore di macchina e mi presentai. Mi misero in una sala insieme ad altri 40 fagottisti. Smontai lo strumento per preludiare e scaldarmi. Mentre gli altri lo facevano, li guardai e intanto, montavo lo strumento per riscaldarmi, ma subito rismontai tutto, misi tutto nella custodia e me ne andai. Quello fu un momento determinante per la mia scelta, perché mi dissi che io non riuscivo a intendere l'arte come un fatto competitivo e io sono una persona che non riesce a essere competitiva. Non avendo le caratteristiche, scelsi altro; ho percorso strade che mi hanno formato al management e arrivo al palcoscenico attraverso dei corsi sul management. Alla regia d’opera arrivo come per un fatto naturale. Partendo da musicista, è la forma di teatro che ho conosciuto per prima. Inoltre, ritengo tutt'ora che sia la forma di teatro più teatralmente rilevante che la civiltà occidentale abbia espresso», continua.
Che qualità deve avere il regista d’opera? Come ci si prepara? Cosa deve sapere?
«Lei sa benissimo che i registi d’opera provengono da curricula i più disparati: c'è chi vi accede dal teatro drammatico, per esempio, come il mio maestro (che tuttora io ritengo il mio maestro) Federico Tiezzi; c'è chi vi accede da musicista come Visconti; chi dal teatro di prosa ma con una con una competenza musicale e professionale come Strehler», spiega il regista.
«I percorsi, dunque, sono diversi ma, secondo me, un regista teatrale deve avere alcune qualità: innanzitutto interpretative, cioè deve riuscire a capire l'anima di una partitura, la capacità di lettura musicale, anche se non è un musicista. Ancora una volta il mio maestro, non essendo un musicista, mi ha insegnato lui, nonostante non sia musicista, l’arte di penetrare il testo», continua.
«Io sono anche un insegnante. Lo sono stato per 15 anni al Conservatorio Rossini di Pesaro e da circa 16 anni insegno al conservatorio Cherubini di Firenze. Dico ai miei studenti che bisogna pensare che la partitura che si legge erano fogli bianchi inizialmente. Questi fogli bianchi sono stati vergati, normalmente prima da un poeta e poi da un musicista. Il poeta ha in mente un teatro, quello che io chiamo il teatro della mente e che è necessariamente diverso da quello del musicista. Il musicista interpreta il teatro della mente del poeta e con la sua partitura determina un possibile sottotesto del testo letto. Ora, queste due sensibilità scrivono un oggetto che è un libro fatto di carta e inchiostro», racconta.
«Questo libro è l'unico elemento oggettivo dell'arte rappresentativa – sottolinea –. Questo oggetto genera la possibilità di un'infinita serie di tradimenti per i quali è nato, tradimenti che rendono un testo fertile. Facciamo un esempio: il Romeo e Giulietta non è un soggetto totalmente originale di Shakespeare e molte delle sue tragedie e commedie non sono soggetti originali, ma noi recitiamo le sue pièce perché sono scritte in modo tale da essere ancora oggi fecondamente tradibili».
«Quando io leggo una partitura so di compiere questo atto, cioè di fare nella mia mente il mio teatro della mente, a partire da un oggetto che è nato da teatri della mente, altri da me. Quando lo discuto coi miei interpreti, arriviamo insieme alla definizione di una messinscena o di una partitura scenica, come si usa anche dire, che va a un pubblico; questo pubblico, nella stessa identica maniera produce lo stesso lavoro di scrittura personale mentale di un teatro della mente», continua.
«Poniamo il caso che si dia una mia Cavalleria rusticana in un teatro dove in decima fila ci siano un dentista, sua moglie, il commercialista del dentista e la moglie del commercialista del dentista. Vediamo il caso che il commercialista e la moglie del dentista abbiano una relazione e che questa relazione, magari, sia anche conosciuta da tutte e quattro le persone – racconta in chiusura il regista –. Nella visione del racconto, cosa avviene nello spirito, nell'anima di questi quattro spettatori? Che teatro della mente si fanno questi quattro? Che cosa riportano a sé questi spettatori rispetto alla partitura? Dunque io cerco di chiamare ciascuno spettatore ad un lavoro di questo genere, cioè di tradimento della mia partitura scenica, che a sua volta è un tradimento dell'originale oggettivo, fatto ad uso della relazione fra me, noi in scena e il pubblico in sala».