Le riflessioni di una giovane studentessa, Chiara Schembra, tra il romanzo “A Little Life” di Hanya Hanagihara, i dati dell’Oms e una citazione di Franco Battiato
«Life is so sad, he would think in those moments. It’s so sad, and yet we all do it.
We all cling to it; we all search for something to give us solace».
Hanya Yanagihara, A Little Life
«La vita è talmente triste, avrebbe pensato in queste occasioni. È talmente triste, ma ancora la viviamo. Tutti noi ci aggrappiamo ad essa; tutti noi siamo alla ricerca di qualcosa che ci dia luce». È questo ciò che Jude avrebbe detto – nell’ipotesi di Willem, che si chiede perché ancora ‘resta aggrappato’ alla vita – in uno dei suoi momenti di sconforto.
Ma chi sono Willem e Jude? Sono i protagonisti di uno struggente e drammatico romanzo del 2015, edito in Italia da Sellerio l’anno successivo, che ha subito critiche, ma ha anche accolto consensi in tutto il mondo, A Little Life di Hanya Hanagihara.
Il testo racconta di quattro amici e del loro ingresso nell’età adulta: Willem, che è un attore; Jude, un perspicace avvocato; l’artista J.B e Malcolm con i suoi progetti di architettura.
Nella vita reale, probabilmente la citazione riportata rappresenta anche una delle reazioni più comuni di un paziente al quale è stato diagnosticato un disturbo depressivo e che si trova a dover rispondere alla domanda del suo medico psichiatra: “Oggi come si sente?”.
Secondo la più recente statistica sui disturbi mentali, effettuata dall’Oms nel 2019, a soffrire a un livello invalidante sono poco meno di mille persone, delle quali l’82% nei paesi a reddito medio-basso.
Nonostante questo, c’è chi pensa ancora che i disturbi mentali siano un’esagerazione di colui o di colei che ne soffre. Diagnosi spesso erronee, abuso di psicofarmaci, rischiano di complicare la situazione.
In più, non è possibile continuare ad essere complici dello stigma sociale che prevede che il paziente affetto da una malattia mentale sia da internare. Si rischia di tornare indietro anni luce e di rendere vani gli studi e i progressi, seppur minimi, fatti finora.
Progressi che, se da una parte sono senz’altro positivi, dall’altra consentono a tutti, anche a coloro che non hanno nessuna competenza o esperienza in campo, di dire la loro.
Occorre fare chiarezza: chi soffre di ansia, depressione, fobie, disturbo ossessivo compulsivo – per citare i casi più comuni – oppure di schizofrenia o di disturbo dissociativo della personalità, non esagera il suo malessere.
Il batticuore prima dell’esame non è ansia generalizzata, quella che ti confina in un oblio senza fine; è semplice ansia da prestazione.
La malinconia non è il disturbo depressivo maggiore che ti fa chiudere in casa, dove spesso una forza oscura si impossessa del tuo Io e ti dice che devi ovviare ai tuoi ‘peccati’ non prendendoti più cura di te.
Il disturbo ossessivo compulsivo non vuol dire ‘entrare in fissa con Harry Styles’, il famoso cantante britannico.
Allo stesso modo, il disturbo dissociativo non significa guardare nel vuoto per stanchezza e soffrire di un disturbo bipolare non riguarda i semplici sbalzi d’umore o la vulnerabilità.
Occorre imparare a parlare bene. Comunicare bene. Risiede anche in questo il rispetto verso coloro che soffrono. È giusto discutere sulla salute mentale, ma con cura, informazione e cautela, a piccole dosi, senza provocare danni ulteriori.
Come diceva Franco Battiato, «saper non dire quello che pensi è molto più importante che fare quel che ti scappa».