Da Zō Centro Culture Contemporanee un appassionante incontro tra arte e scienza. Focus sul rapporto archetipico tra Cinema e Vulcani, con uno sguardo particolare su Catania e il suo vulcano
Sicilia! La notte era un occhio pieno di sguardo. Tutti i profumi gridavano all’unisono. Una molla svitata fermò la nostra auto ricoperta di luna come da una zanzariera. Faceva caldo. Impazienti, gli autisti ruppero l’incanto percuotendo la carrozzeria con pesanti colpi di chiave inglese e bestemmiando Cristo e sua madre con cieca fede. Di fronte a noi, l’Etna, grande attore che fa esplodere il suo spettacolo due o tre volte ogni secolo e di cui venivo a cinematografare la tragica fantasia [...] Quale attore tragico di quale teatro ha mai conosciuto un tale uragano di successo?.
(Jean Epstein, Le Cinématographe vu de l’Etna (1926), Einaudi, 2022, p. 45)
Con queste parole si apre uno dei più importanti scritti di riflessione estetica sulla Settima Arte, che il regista francese Jean Epstein scrisse rielaborando la propria esperienza sull’Etna, in occasione della realizzazione de La Montagne infidèle (1923), considerato perduto e di recente recuperato dalla Filmoteca de Catalunya. Fulcro delle riflessioni è il rapporto archetipico tra arte e natura, cinema ed estetica del sublime. A un secolo esatto di distanza da quell’eruzione, che tanto aveva impressionato Epstein e le sue pellicole, Memorie del fuoco, evento organizzato dal Catania Film Festival, sembra muovere dalle stesse preoccupazioni e riflessioni. L’appuntamento si è svolto il 20 Aprile 2023 in collaborazione con Zō Centro Culture Contemporanee, con il patrocinio dell’Assessorato Regionale del Turismo, dello Sport e dello Spettacolo della Regione Siciliana.
Il programma e il titolo di Memorie del fuoco, come spiegato dal moderatore Massimo Blandini, hanno preso spunto dallibro dello scrittore uruguaiano Eduardo Galeano, fonte di ispirazione per il suo stile «asciutto, agile, efficace ma al contempo poetico e capace di trasmettere».
Per questo l’evento ha accolto il pubblico in apertura, nella prima sala di Zō, con la personale Omaggio all’Etna dell’artista siciliano Salvatore Bonajuto con i suoi giochi di variazioni pittoriche sul soggetto. Passando poi nella sala principale, l’atmosfera è stata da subito pensata per intrattenere e immergere i partecipanti nel mood dell’iniziativa: luci rosso cremisi, soffuse, in contrasto col nero della location e i suoni ambientali di esplosioni vulcaniche in sottofondo hanno preparato i partecipanti agli eventi in programma tra il pomeriggio e la sera.
Memorie del fuoco. La mostra di Salvatore Bonajuto
La memoria dei ‘poeti del fuoco’
Il titolo della prima parte della serata, dedicata ai'poeti del fuoco', si riferisce all’epiteto suggestivo che Jean Cocteau attribuì al leggendario geologo e divulgatore Haroun Tazieff.
Un interessante approfondimento scientifico sul tema, con interventi di esperti che in vari gradi e misure hanno dedicato la propria vita e la propria carriera al vulcano etneo.
Salvo Caffo, vulcanologo e dirigente del Parco dell’Etna, ha ripercorso la propria esperienza per illustrare come si possa raccontare un vulcano. Egli è stato infatti tra i protagonisti dell’impresa storica che ha portato, dopo quasi due anni di sforzi, all’inserimento dell’Etna tra i Patrimoni dell’Umanità UNESCO nel 2013. Un percorso affatto facile. Un riconoscimento che, come si legge sul sito UNESCO, vede nell’Etna un incomparato ruolo «iconico» nella storia della vulcanologia.
È intervenuto poi Orazio Consoli, guida alpina con decenni di esperienza alle spalle, rievocando in maniera vivace e affascinante ricordi legati alla propria attività e in particolare alle spedizioni sull’Etna di due giganti della vulcanologia quali il già citato Tazieff e Francois “Fanfan” Leguern. Le memorie di Consoli sono state accompagnate da una chicca finale con la proiezione di inediti filmati in 16mm e bianco e nero di una spedizione su Stromboli durante un’eruzione, mandati a Consoli da Leguern prima di morire.
Il terzo intervento è stato quello di Stefano Branca, Direttore Osservatorio Etneo INGV, che ha dato una breve ma intensa lezione di storia della vulcanologia etnea, ripercorrendo le tappe e i nomi fondamentali di una storia scientifica che, con attestazioni risalenti a oltre 2700 anni fa, è una delle più antiche (da Giovanni Alfonso Borelli a Wolfgang Sartorius von Waltershausen, da Charles Lyell a Orazio Silvestri, fino a Gaetano Porta, Alfred Ritmann e ancora Haroun Tazieef). Branca ha poi concluso l’intervento con un accenno in prospettiva storica alle più recenti tecnologie applicate nel monitoraggio dell’Etna: il sistema ETNAS (ETna Integrated Alert System), impiegato dal 2022, che sfrutta la capacità di incrociare i dati di diversi parametri di allertamento tra loro indipendenti per permettere stime e previsioni sempre più precise sulle attività vulcaniche.
La prima parte della serata è stata conclusa dall’intervento del professore Marco Viccaro, presidente dell’Associazione Italiana Vulcanologia e docente al Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali, con uno sguardo ai rapporti di convivenza non sempre facili tra Uomo e Vulcani. Il ricercatore ha passato in rassegna i casi più emblematici dell’Italia come «terra di vulcani», sottolineando l’importanza di studiare il passato per prepararsi a ogni eventualità futura. La rassegna di casi disastrosi e le nuove strategie di prevenzione hanno messo in luce l’importanza di una maggiore presa di consapevolezza da parte della società dei rischi che comporta, accanto ai tanti vantaggi del vivere insieme a un vulcano.
Memorie del fuoco, un momento dell'incontro
Il fuoco, gli uomini, gli dèi
Ti sei mai chiesto perché anche noi cerchiamo il sonno? Ti sei mai chiesto dove vanno i vecchi dèi che il mondo ignora? Perché sprofondano nel tempo, come le pietre nella terra, loro che pure sono eterni? E chi son io, chi è Calipso?
(Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò [1947], 2014, Einaudi, p. 99)
Il primo film dell’evento a porsi in dialogo con i racconti e gli interventi scientifici dell’introduzione è stato Dove vanno i vecchi dèi che il mondo ignora? (2022) dei siciliani Giuseppe Spina e Giulia Mazzone.
Il titolo è ispirato a un brano dai Dialoghi di Leucò di Cesare Pavese e denuncia da subito la propria vocazione mitologica nel percorrere un’ascesi mistica che, indagando le declinazioni del rapporto uomo-vulcano-natura, riesca a trovare in esso la chiave per un’indagine introspettiva della psiche umana.
Il film è diviso in tre parti: La regione infernale, che documenta la lavorazione industriale della pietra lavica; la regione del fuoco, in cui protagonisti sono gli aspetti più aspri e misteriosi del paesaggio vulcanico, come il deserto lavico e le misteriose grotte; la regione deserta, che riflette sulle zone meno esplorabili e visibili anche attraverso un approccio iconico particolare: sfruttando immagini ottenute tramite tecnologie usate dalla ricerca.
Se il rimando al capolavoro sperimentale di Michael Snow, la Règion Centrale (1971), è immediato sia nella scelta dei titoli delle tre sezioni, che nella rappresentazione de-antropizzata del paesaggio montuoso, non mancano richiami ad altre poetiche: la scelta di rendere natura e tecnica protagonisti più degli umani, soprattutto nella prima parte, porta a galla l’influenza del cinema di Franco Piavoli. Ma è soprattutto un impianto alla Chris Marker, citato dagli autori come influenza anche nell’introduzione al film, a permeare il film, che si assesta così nella strada tracciata dal maestro francese, a metà tra film-saggio e documentario poetico.
Interessante poi la scelta di ricorrere all’utilizzo di immagini ottenute, in collaborazione con i laboratori di Geologia dell'Università di Catania, tramite strumenti attinenti più alla sfera della ricerca che a quella prettamente cinematografica, come riprese a infrarossi, radar, riprese termiche, immagini al microscopio, che rilanciano ulteriormente la centralità della dialettica arte-scienza alla base del progetto.
Memorie del fuoco, Giulia Mazzone e Giuseppe Spina
Ad accompagnare le immagini, vi sono anche dei testi rielaborati a partire daLe Speronare (1842) di Alexandre Dumas padre, diario del viaggio in Sicilia dello scrittore francese, che in esso appuntò le impressioni destate dall’Etna.
Il film è profondamente stratificato, nella sua impronta marcatamente sperimentale. Soddisfa gli occhi per la ricercatezza estetica delle immagini naturalistiche dell’Etna, ma si apre anche a letture più complesse, invitando lo spettatore a interrogarsi su questioni quali il rapporto tra uomo e cosmo; la tensione tra scienza, conoscenza e misteri della natura; le interconnessioni tra arte cinematografica e ricerca scientifica.
La proiezione del film è stata seguita poi dallo spettacolo teatraleHaroun di Ezio Abbate, regista e attore protagonista insieme all’altro interprete, Marcello Rimi.
Anche questa opera, a partire dal titolo, ha reso omaggio a Tazieff. La messa in scena della convivenza forzata e immaginata tra l’intellettuale vulcanologo e il popolano Vincenzo Barbagallo, guida dell’Etna, mette in contrasto con una scenografia e un impianto drammaturgico minimalista la saggezza del popolo (che spesso si tinge dei toni opachi della superstizione) con la sapienza scientifica (che spesso si chiude nella sua ottusa rigidità).
Una narrazione che è mandata avanti dai monologhi interiori dei due personaggi. Ne scaturisce una dialettica che lascia allo spettatore il compito di trarre le conclusioni su quale delle due culture possa essere più autentica e umana, e – in definitiva – più in sintonia con il mistero archetipico del Vulcano: quella dello scienziato che lo studia, o quella del popolano che lo vive?
Un momento dello spettacolo teatrale Haroun di Ezio Abbate
Il fuoco dell’amore
La seconda e ultima opera cinematografica della giornata è stata introdotta da Stefania Rimini, docente di Cinema, Fotografia e Serialità Televisiva presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania.
Il film Fire of Love (2022) dell’americana Sara Dosa, candidato lo scorso anno agli Academy Awards come miglior documentario, è il racconto di una storia d’amore reciproco tra due esseri umani, Katia e Maurice Krafft, ma anche del loro amore comune per i Vulcani.
Nella forma di un found footage film – che parte cioè dai filmati amatoriali, realizzati negli anni dalla coppia durante le spedizioni su vulcani in giro per il mondo – quest’opera mostra un gusto ‘pop’ per le immagini, come sottolineato da Stefania Rimini, rielaborando il materiale di partenza con una libertà e una leggerezza espressiva che ammiccano non di rado all’estetica della Nouvelle Vague.
Chimica di formazione lei, geologo lui, inseparabili dal loro primo incontro, dal film si percepisce quanto i due siano stati pionieri della ricerca e soprattutto della divulgazione al pubblico tramite l’audiovisivo, ispirati anche loro da quanto fatto da Haroun Tazieff.
Questo approccio si è tradotto nella pratica, mai abbandonata, di filmare con le proprie macchine da presa tutti i loro viaggi, con una consapevolezza estetica e uno sguardo da grandi documentaristi.
Un momento dell'intervento della prof.ssa Stefania Rimini
Ma è soprattutto al cinema del tedesco Werner Herzog che l’opera sembra, in maniera implicita, rimandare. Come ha ricordato Stefania Rimini, il grande regista tedesco ha utilizzato alcuni materiali registrati dai due per il suo Into the Inferno (2016). Due film di Herzog però dialogano alla perfezione con l’opera della Dosa: il mediometraggio La Soufrière (1977) e, soprattutto, Grizzly Man (2005).
Nel primo il regista sembra sfidare la sorte, come i Krafft hanno più volte fatto, per l’incontenibile attrazione provata nei confronti di una manifestazione indomita della violenza della natura, come avrebbe dovuto essere la prevista catastrofica eruzione del vulcano La Soufrière, nell’isola di Guadalupa, che poi non si verificò.
Il film Grizzly Man è ancora più vicino all’opera di Sara Dosa. Pur non trattandosi di uno dei film di Herzog sul tema dei vulcani, le affinità riguardano la scelta di raccontare, riprendendo e rimodellando le immagini girate dai protagonisti stessi, una passione logorante e fuori dagli schemi, il rapporto indissolubile con la natura e la sua ambivalenza (i vulcani dei Kafft, i grizzly di Timothy Treadwell). Come sembrano voler mostrare entrambe le opere, infatti, la natura sa essere sia mansueta e docile, ma anche aggressiva e devastante, come hanno imparato a loro spese i protagonisti dei due film. Tutti e tre morti, infatti, tragicamente, svolgendo la propria attività e portando avanti la propria passione: investiti dalla furia di un vulcano esploso in Giappone i Kraft; dilaniato dalla furia bestiale di un grizzly Treadwell.
Passioni ancestrali e pericolose, accompagnate sempre dalla volontà di riprendere e filmare, per divulgare e far conoscere, ma anche come atto fondante della propria esperienza.
«Di tutto questo, resteranno solo le immagini», dice Maurice Krafft a un certo punto: una riflessione, dunque, per concludere, sull’esperienza umana e sul cinema stesso.
Il trailer del film Fire of Love