Media e crisi: percezioni, effetti e opportunità

Guido Nicolosi, sociologo dei processi culturali e comunicativi dell’Università di Catania, ha discusso con studenti e partecipanti del concetto di crisi e del ruolo dei media

Giovanna Santaera

Perché un tema come quello delle narrazioni e degli sguardi sulla ‘crisi’ viene trattato dall’Università di Catania in un ciclo annuale di seminari interdipartimentali aperti alla cittadinanza? 

La risposta è stata data dal prof. Guido Nicolosi, docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi dell’Ateneo catanese, ultimo ‘ospite’ della rassegna di appuntamenti Conoscere il mondo islamicoche ogni anno raccoglie studiose e studiosi di diversi ambiti e atenei spaziando fra letteratura, lingue, arti, storia e società

«Quando Mirella Cassarino, tra le organizzatrici dell'iniziativa, mi ha contattato, ho avuto un momento di esitazione perché la mia ricerca su media e crisi non era freschissima. Ma dalla nostra discussione ho capito che attraverso un evento simile l’Università può offrire una prospettiva diversa, qualcosa di più di ciò che un singolo dipartimento può dare» ha detto in apertura il prof. Guido Nicolosi.  

Al di là dell’importanza degli scambi interdisciplinari, la partecipazione del sociologo all’appuntamento tenutosi il 18 aprile presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche ha dato un contributo sul tema a partire da una prospettiva specifica, secondo la quale i media vanno intesi come‘meccanismi di comunicazione’strettamente correlati alla dimensione culturale.

Per riuscire a comprendere il ruolo delle rappresentazioni e delle visioni mediali occorre innanzitutto chiedersi, secondo Nicolosi, quale significato attribuire al termine crisi: «Che cosa produce questa condizione di squilibrio? Una crisi è fortemente legata a fattori e aspettative culturali. Pensiamo, per esempio, all’espressione: “sentirsi in crisi”… Ci sono società meno avvantaggiate della nostra che però non “avvertono” di esserlo. La ‘percezione’ della crisi quindi è rilevante tanto e più delle condizioni oggettive» ha aggiunto. 

Le crisi possono essere allora politiche, militari, economiche, legate a emergenze naturali o conflittuali, ma risultano comunque condizionate da vari fattori sociali e culturali, fra cui i media, che svolgono un ruolo alla lunga decisivo. Il processo di comunicazione, infatti, contribuisce a «enfatizzare» o «mitigare» anche le condizioni oggettivamente più difficili.

Il lungo intervento dello studioso si snoda attorno a due punti chiave: da un lato, le tecnologie dell’informazione e della comunicazione (vecchie e nuove) sono di per sé rilevanti in quanto ‘veicoli sensibili’ di aspettative, percezioni e interpretazioni; dall’altro, esiste un rapporto inscindibile fra le due sfere dei media e delle crisi per il ruolo che i primi giocano rispetto alle «cornici narrative».

intervento del prof. Guido Nicolosi

Un momento dell'intervento del prof. Guido Nicolosi

Alcuni esempi storici e recenti, relativi ai temi delle migrazioni, della guerra e della pandemia, lo dimostrano. L’attivazione di una «memoria mediale» vale, infatti, a integrare i dati quantitativi e a comprendere in profondità fenomeni apparentemente schematici. Nel caso dei flussi immigratori di profughi albanesi verso l’Italia negli anni Novanta importanti studi hanno dimostrato il ruolo dell’influenza di programmi televisivi, come Pronto Raffaella, capaci di rilanciare la rappresentazione di un territorio ricco di risorse e accogliente e dunque di motivare la necessità della fuga verso la nostra penisola.

Questo approccio ci aiuta a interpretare le crisi come «momenti di riadattamento e cambiamento», andando oltre i rischi di una idea di «resilienza come accettazione di uno status quo» ha spiegato il docente. Il concetto di crisi non ha solo una accezione negativa, ma può essere declinato anche in senso positivo a partire dalla sua etimologia (che rimanda alla scelta, alla distinzione), come precisato durante l’incontro anche grazie all’intervento di un’altra partecipante.

Da qui la riflessione sul peso simbolico-interpretativo delle parole e dei contenuti mediali usati nel corso della storia: se nel secondo dopoguerra l’incertezza è fra «terrorismo» e «resistenza» o «banditismo», il conflitto comunicativo russo-ucraino si divide fra il tentativo di una riduzione a «operazione speciale» attraverso il tradizionalismo mediale di Putin e il minuzioso «script» del presidente Zelensky (attore e conduttore). Si pensi ancora alla contrapposizione sui movimenti ecologici tra «proteste vs vandalismo» o infine all’antitesi tra le narrazioni delle «sommosse» nei paesi arabi e le «rivolte» rivoluzionarie.

Alla fine dell’incontro, grazie a precisi affondi su dati e situazioni sulle primavere arabe e sulla crisi iraniana, è emerso come i media possano giocare addirittura un triplice ruolo: piattaforme stratificate per usi sociali di potere politico (tanto di propaganda quanto di denuncia); strumenti di reazione e contrasto durante i conflitti; archivi di memoria, non solo per la loro capacità di registrazione ma per la intrinseca funzione immaginativa che svolgono rispetto alle nostre conoscenze e alla percezione individuale e collettiva di fenomeni e sentimenti.

Eppure le deboli reazioni nel mondo occidentale di fronte agli omicidi e alla resistenza delle donne iraniane mostrano come senza una profonda capacità di approfondimento, analisi e critica del presente si corra il rischio di non comprendere le differenze geografiche e storiche e soprattutto di veicolare visioni ‘sbagliate’ dei conflitti, che non promuovono né un cambiamento né un nuovo sguardo sul mondo. 

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