Medea

La tragedia di Euripide è andata in scena al Teatro greco di Siracusa per la regia di Federico Tiezzi

Thea Faro

La Medea di Euripide è un testo frequentatissimo - anche dall’Inda con l’allestimento del 1927 curato da Ettore Romagnoli - e considerato tra i più attuali e significativi per la nostra contemporaneità. Ce lo dimostrano i numerosi adattamenti realizzati nell’ultimo secolo: indimenticabili la versione cinematografica di Pier Paolo Pasolini con Maria Callas, la riscrittura di Christa Wolf, o ancora il monologo teatrale di Franca Rame, solo per citarne alcuni.

Federico Tiezzi, nel firmare l’allestimento siracusano di quest’anno, ricorda ancora una volta agli spettatori l’universalità dei temi trattati dal tragediografo greco soffermandosi, come afferma egli stesso nel teaser dello spettacolo, sulla centralità dello «scontro tra culture» oltre che tra i generi, che porta in scena scegliendo una particolare chiave interpretativa caratterizzata dalla trasposizione della vicenda nel più recente XIX secolo, in un’atmosfera da dramma borghese alla Ibsen o alla Strindberg. 

Il teaser di Medea 

Questa ambientazione è resa da tre elementi: i costumi realizzati da Giovanna Buzzi; la bella e scorrevole traduzione di Massimo Fusillo, che mescolando diversi registri stilistici restituisce il carattere prosaico e quotidiano pensato già dallo stesso Euripide e rende più accessibile il testo, senza per questo esautorarlo della sua potenza catartica; e, infine, la scena ideata da Marco Rossi, nella quale spicca la fastosità borghese. 

Ai lati di strutture cubiche rivestite con neon bianchi, sparse sedie nere e un lungo tavolo ovale da sala da pranzo, anch’esso nero (colore che sembra prefigurare il finale luttuoso della vicenda) costituiscono i pochi arredi di uno spazio domestico che vuole apparire elegante. 

Lo spettacolo si apre con il canto del coro di voci bianche del Teatro dell’Opera di Roma (diretto da Giuseppe Sabbatini e Carlo Donadio) sulle musiche originali composte da Silvia Colasanti, note che funzionano da accesso all’atmosfera tragica dell’opera. 

Laura Marinoni (Medea) e Roberto Latini (Creonte) - foto Aliffi

Laura Marinoni (Medea) e Roberto Latini (Creonte) - foto Aliffi

Segue l’ingresso in scena della nutrice (Debora Zuin) che, portando con sé una valigia indicativa del suo stato di esule – e di quello della sua padrona – narra l’antefatto della sua condizione: la ricerca del vello d’oro in Colchide da parte di Giasone, la collaborazione di Medea, il suo innamoramento, la fuga alla volta di Corinto, dove i due si erano poi sposati; la successiva decisione dell’uomo di sposare la figlia di Creonte, violando così il vincolo coniugale che lo legava alla prima moglie. 

Le conseguenze drammatiche della scelta di Giasone costituiscono l’azione del testo euripideo, che da questa prende avvio. Medea (una magnifica Laura Marinoni) non compare subito in scena: di lei si sente solo la voce, quasi non appartenesse a questo mondo. 

Una voce profonda che esprime il suo dolore straziante («Perché il fulmine non mi colpisce? Vorrei sciogliere nella morte questo dolore»). L’eroina entra quindi indossando un lungo mantello nero con piume blu e azzurre, e una maschera da aquila sulla testa; allo stesso modo i suoi figli (Matteo Paguni e Francesco Cutale) indosseranno teste di conigli e Creonte (Roberto Latini) e i suoi seguaci (Jacopo Sarotti, Alberto Carbone, Carlo Alberto Denoyè) teste di coccodrillo. 

Riconducendo il mito alla medesima funzione archetipica della favola, con tali costumi Tiezzi – si può provare a interpretare in questo modo – sceglie di associare a questi personaggi animali simbolici del loro carattere: un’idea interessante, sebbene un po’ isolata tenuto conto delle altre scelte registiche, come alcuni altri elementi che, apparendo sovrabbondanti, fanno perdere coesione a un’operazione altrimenti ben riuscita.

Debora Zuin (Nutrice)_Riccardo Livermore (pedagogo)_foto Centaro

Debora Zuin (Nutrice) e Riccardo Livermore (pedagogo) - foto Centaro

Nessuna maschera è indossata, invece, da Giasone (Alessandro Averone), che veste formali abiti borghesi e porta in scena la sua visione del mondo, così diversa da quella della moglie da non fargli comprendere la sua sofferenza. Mentre si giustifica, addirittura, l’uomo non desiste dal tentativo anche fisico di ricucire i rapporti con Medea, la quale però chiaramente lo respinge. 

Lei, infatti, è impegnata a tessere la sua vendetta, fulcro dell’opera euripidea e unica opzione nella mentalità arcaica dell’eroina della Colchide, la quale sentenzia che quando una donna «subisce un torto di letto, nessuno è più sanguinario di lei». 

Nel suo orizzonte, infatti, non resta che punire il marito con la legge del contrappasso, cioè privarlo di tutto ciò che ha di più caro – la nuova sposa, gli eredi – così come lei ha rinunciato a tutto per fuggire con lui dalla Colchide. Dunque, uccisa la figlia di Creonte con l’inganno, si vedrà costretta a dare la morte anche ai suoi figli (dei quali si sentono solo le urla, mentre la scena è illuminata da fasci di luce rossa), per evitare che finiscano nelle mani dei nemici. 

Alessandro Averon (Giasone)_Laura Marinoni (Medea)_foto Pantano

Alessandro Averon (Giasone) e Laura Marinoni (Medea) - foto Pantano

Medea ricomparirà in scena sul carro di Apollo (una gru sopra un carrello), dialogando un’ultima volta con Giasone, affranto per l’assassinio della sua prole. La donna sarebbe stata salvata dagli dèi, che «sanno da chi viene la prima offesa», almeno ciò viene detto. Ma il lucente abito dorato che adesso indossa sembra suggerirci una sua metamorfosi nel dio del Sole, del quale era comunque discendente. Nell’ottica laica del dramma borghese, del resto, la personaggia protagonista deve salvarsi da sola. 

La rappresentazione si conclude con una immagine dal forte impatto: le assi di legno che rivestono parte dell’orchestra si inclinano, facendo scivolare gli arredi che si trovano su di esse. Il coro, come già in apertura, entra in scena portando secchi metallici e strofinacci per pulire, ma questo è ormai impossibile. 

L’atto di Medea è indelebile, il sangue versato non può ritornare nei corpi dai quali proviene: macchierà invece il pavimento bianco, simbolo dello spazio della casa e della famiglia, che ormai si è dissolta. 

La scena finale di Medea di Euripide - foto Aliffi

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