Ma «qui» non è qui

Il racconto di “Guardando da qui” di Sergio Cristaldi è stato presentato al Coro di notte del Monastero dei Benedettini di Catania

Martina Seminara

«Storie familiari e di amicizia, cambi di rotta, rovesciamenti di prospettiva e spesso il mare abitano delicati e impetuosi i versi di Sergio Cristaldi.

Costante balugina lo schiudersi alla luce di circostanze, basta che si guardi ad alcuni titoli delle dieci sezioni, tra cui: Epidemia, apertura; Ricevere, dare; Mutata, non tolta; ed ancora a titoli di componimenti come In affanno tutte e due/ in fiducia. Elementi sufficienti a significare la fede inestinguibile nella vita, come cifra del libro di Sergio».

Queste le parole di Marina Paino, direttore del Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania, in apertura della presentazione di Guardando da qui, seconda silloge poetica dell’autore, seguita a Turno R (2018), edite entrambe da CartaCanta.

Sergio Cristaldi, infatti, è sì, docente di Letteratura Italiana all’Università di Catania, ma parallela si è mossa sempre, «sempre più reclamando spazio al mestiere di professore, la passione di poeta». Cristaldi, in effetti - rammenta Marina Paino - dirige altresì il Centro di poesia contemporanea di Catania, guida per altri poeti del nostro tempo.

L’intervento di Andrea Manganaro, anch’egli docente di Letteratura Italiana dell’ateneo catenese, ha posto l’attenzione sulla tradizione letteraria che, dal Convivio all’ironia manzoniana, innesca nell’atto dello sguardo l’allusione ad un altrove, come accade all’interno del libro, che si tratti di una particolare realtà fenomenica, su cui la vista consente ricada una prospettiva, laccio col quale aggrapparsi alla terra, oppure l’Altro assoluto, forse anch’esso vulnerabile a chi desideri dedicargli uno sguardo.

Un momento dell'intervento del prof. Sergio Cristaldi

Un momento dell'intervento del prof. Sergio Cristaldi

«Così le piante, / persino le felci, / sono tentate / di tanto in tanto / dalla fiducia»: versi inclusi nella raccolta Catena umana del poeta irlandese Seamus Heaney, premio Nobel per la letteratura nel 1995, posti ad epigrafe del libro e custodi al loro interno della parola cardine, a detta del professore Manganaro, di Guardando da qui: Fiducia.

«Mi pare vi sia come figura centrale quel che in retorica si definisce “sineddoche”, e che questa passi dal particolare di un messaggio whatsapp, di un post-it, dal parapetto di un traghetto, come dagli indumenti della libellula ritratta, alla tensione verso ciò che dall’immagine materiale prosegue e trascende», ma che reclama, perché ogni minima quotidianità attivi la molteplicità della propria esistenza, innanzitutto d’essere vista.

D’altra parte, il docente ricorda che lo stesso Umberto Eco in Semiotica e Filosofia del linguaggio (1984) affermò come sia primariamente visiva la conoscenza di tutte le cose.

Fra le narrazioni liriche del volume, rammentate da Andrea Manganaro, la memoria della reclusione indotta dalla pandemia, e la corrispettiva revoca comunemente attesa, insperata per chi patisca a prescindere dal virus; «la scommessa che sa e non sa» di due sposi, il cui fervore scalmanato diventa, lontano nel tempo, «questo saluto sottovoce», «fedeltà resa destino / che si conosce e si ignora» in Diritto matrimoniale; il periglioso viaggio per mare di un traghetto, dentro il quale i presenti «si scambiano storie», preservando fino alla meta l’incipitaria fiducia, «istinto inguaribile», «talismano» e «sensore», pronta allo squasso di naufragi e a disseminate voragini.

Ed ancora, fra i temi, vi è la strada insieme percorsa nella condivisione di idee e fedi, l’amicizia come contagio reciproco «di sguardi disponibili alle comete»; il «signore dei derisi», figura cristologica  che anima la penultima sezione, Contro fervore; e la finale vendita della casa paterna.

I docenti Marina Paino e Andrea Manganaro

I docenti Marina Paino e Andrea Manganaro

Ospite della presentazione anche Davide Rondoni, poeta e saggista emiliano, che della silloge ha illuminato «la familiarità profonda con il vivente, con la ferialità, che pare aggirarsi pur sempre nel sospetto che il «qui» nominato non sia né complessivo né completo: diversi i fatti minimi, gli spostamenti, i mutamenti narrati a monito di quanto qui non sia qui, o non sia solo qui».

L’inquietudine di questo non-luogo instabile, in perenne riedificazione - ricorda Rondoni - attraversa la tradizione poetica novecentesca: «questo movimento doppio della realtà, i poeti autentici lo sentono, offrendone resoconti tutt’altro che tranquilli, intenti, anzi, nella trasmissione della medesima inquietudine. Giungono a dire: “e tu, lettore, dove sei? Stai leggendo le mie parole? Stai leggendo la tua vita? La lettura stessa di un libro di poesie che luogo è?».

Eppure è possibile che quando giunga ad un certo qui del tempo, del proprio corpo, di una vita che, nutritasi di studio e di libri, non è più solo una - stando a Thomas Eliot - il poeta scopra più essenzialmente le parole giuste per dire la malattia di un’amica, della figlia che va via per cominciare la sua vita, poiché il linguaggio si affina, «non per mera perizia linguistica, quanto per conseguenza dell’affinarsi dello sguardo».

Si trova ciò, a detta degli intervenuti, tra i versi di Sergio Cristaldi, insieme a quella fiducia che ancora Seamus Heaney in Vedere cose (1991), ritiene quanto rende il vivente tale, una maniera differente e forse migliore rispetto allo scetticismo, tramite cui concepire il sentimento del tempo, dote innata in un bambino e ancora indomata nel verso conclusivo di un poeta al culmine della propria esperienza, il cui libro si chiude sull’«impeto aperto della nostra vita».