L’«ironia salvifica» dei Gordi. Sulla morte senza esagerare

Lo spettacolo della compagnia Teatro dei Gordi è andato in scena al Piccolo Teatro della Città. Al Centro universitario teatrale l’incontro per la rassegna “RetroScena”

Thea Faro (foto di Dino Stornello)

È andato in scena al Piccolo Teatro della Città Sulla morte senza esagerare della compagnia Teatro dei Gordi, che in queste giornate catanesi raggiunge anche le sue cento repliche.

La genesi dello spettacolo risale al 2015, anno in cui Riccardo Pippa, il regista, propone alla compagnia (entrando a farne parte) un canovaccio ispirato alla poesia di Wislawa Szymborska da cui lo spettacolo prende il nome. Nello stesso anno fa ingresso nei Gordi anche Ilaria Ariemme, artista occupatasi della scenografia, dei costumi, e artefice delle belle maschere integrali indossate dagli attori.

Ispirate ai dipinti di Otto Dix e al filone della pittura espressionista e dadaista, le maschere impongono una partitura priva di parola orale, che dunque si affida del tutto al codice gestuale, traducendo in esso la cifra ironica usata da Szymborska, necessaria ad affrontare un tema lugubre senza esagerare.

Del testo poetico rimangono, in questo peculiare adattamento, solo dei frammenti proiettati su uno schermo che fa da sfondo a una scena essenziale, di cui elemento centrale è una panchina, “area di sosta” tra le due quinte, che rappresentano le porte verso l’aldilà (a sinistra del pubblico) e l’aldiquà (a destra).

Un momento dello spettacolo

Un momento dello spettacolo

Numerosi sono i precedenti, letterari, teatrali e cinematografici, di riflessione sull’ineluttabile perire umano: basti qui ricordare La classe morta di Tadeusz Kantor, Il settimo sigillo di Ingmar Bergman, Still life di Uberto Pasolini (ricordati dagli stessi attori), ma forse anche Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders e la serie The good place di Michael Schur.

Il riferimento più chiaro sembra però essere quello a Le intermittenze della morte di Josè Saramago, che condivide con la lirica di Szymborska e con la drammaturgia di Pippa il presupposto di creare un ritratto quasi ossimorico della Morte, che «non sa fare neppure ciò / che attiene al suo mestiere» e che «occupata a uccidere, / lo fa in modo maldestro, / senza metodo né attività», andando inevitabilmente incontro a «disfatte, / colpi a vuoto / e tentativi ripetuti da capo».

I Gordi, i quali prendono questo nome omaggiando la scuola di Paolo Grassi dove si sono conosciuti – ma anche facendo riferimento al gurdus latino, che significa ‘terreno fertile’ – traducono sulla scena il testo della poetessa polacca, costruendo una serie di quadri performativi che esemplificano il suo discorso di carattere più universale. Protagonista è sempre una Morte (Andrea Panigatti) personaggio comico, un po’ charlottiano, che non solo quasi mai riesce a portare a termine il suo unico terribile compito, ma che non può nemmeno mai raggiungere un obiettivo banale come l’accensione di un sigaro, perché sempre interrotta.

Le maschere posizionate sul palco a fine spettacolo per consentire al pubblico di ammirarle e toccarle (foto di Thea Faro)

Le maschere posizionate sul palco a fine spettacolo per consentire al pubblico di ammirarle e toccarle (foto di Thea Faro)

A questa Morte antropomorfa e umanizzata vanno incontro, in senso più fisico che metaforico-trascendente, diversi personaggi, le cui maschere vengono di volta in volta indossate da Giovanni Longhin, Sandro Pivotti e Matteo Vitanza. Ognuno di essi è rappresentativo dell’intera esperienza umana ed è riconoscibile nella nostra attualità, seppur non necessariamente legato a essa: una malata terminale, un uomo che tenta più volte il suicidio, una coppia di anziani, un soldato, un ragazzo vittima di un incidente stradale, una prostituta (che ricorda un po’ Cenerentola), una donna incinta.

In questo limbo di incontri e scontri le maschere interagiscono mute, accompagnate da coerenti e variegate scelte sonore e di luci, che rafforzano il tratto ironico della messinscena, esprimendo una sintesi della dialettica tra vita e morte per cui in realtà quest’ultima «onnipotente non è» (Szymborska), tanto che alla fine deciderà di andare in pensione ed essere sostituita.

La scelta di una chiave ironica, ottenuta anche attraverso l’uso delle maschere integrali e l’appoggio esclusivo alla comunicazione tramite gesti, è approfondita dagli attori durante l’incontro per la rassegna RetroScena, ultimo di questa stagione, che si è tenuto al Centro Universitario Teatrale il 9 maggio, che ha visto la partecipazione di Giovanni Longhin, Andrea Panigatti, Sandro Pivotti e Matteo Vitanza a un interessante dialogo moderato da Simona Scattina, docente di Discipline dello Spettacolo all’Università di Catania.

Un momento di RetroScena al Cut

Un momento di RetroScena al Cut

Pivotti spiega qui che per i Gordi l’ironia «è uno strumento che permette di parlare di cose tanto dure in modo più leggero», rimanendo lontani dal cinismo e con l’ambizione di riuscire a «sfiorare la poesia». Le maschere, dunque, non sono altro che lo strumento migliore per rappresentare la morte in scena, ma non una scelta che la compagnia rivendica all’interno della circoscritta etichetta di “teatro di figura”: infatti, raccontano gli attori, alcuni degli spettacoli successivi a Sulla morte senza esagerare, pur essendo affini nei temi, non vedono l’uso delle maschere.

Nonostante ciò, riferisce sempre Pivotti, scegliere di ricorrere a questi dispositivi scenici «è stato abbastanza naturale» e, anzi, ha permesso agli attori di sperimentarsi nell’apprendimento della complessa «grammatica» legata al loro impiego, che va seguita pedissequamente. È una «questione di patto con il pubblico, perché la maschera per esistere deve essere guardata» e dunque bisogna sempre rispettare le regole del suo codice semiotico, anche in caso di imprevisti.

Longhin ne parla come «un lavoro molto igienico», che annullando l’uso della parola e dell’espressività del viso costringe a scoprire «che il corpo è pieno di dettagli», oltre che ad avere «un confronto più diretto con l’ego» (Pivotti). Lo stesso Longhin dà, durante l’incontro, una dimostrazione di questo tipo di recitazione, ricordando che «le maschere guardano col naso» e, perciò, è sempre necessario voltarsi prima di compiere qualsiasi movimento, mancando la visione periferica.

Alla fine dell’incontro, così come di ogni loro spettacolo, i Gordi coinvolgono in un momento inaspettato, ulteriore merito alla compagnia, che dimostra grande fiducia nel suo pubblico e voglia di portarlo a contatto diretto con la pièce: le maschere di cartapesta vengono messe a disposizione di tutti, non per essere indossate ma per poterne apprezzare con mano la consistenza materica e scoprirne a distanza ravvicinata ogni dettaglio della realizzazione.