Il genio rinascimentale fiorentino – ha spiegato il prof. Carlo Vecce nella sua prolusione inaugurale – non visitò mai la Sicilia, ma fu sempre colpito dall’immagine dell’Etna, vulcano nelle cui viscere risiedeva l’anima vegetativa della Terra
Leonardo da Vinci è mai stato in Sicilia? «Mai – assicura il prof. Carlo Vecce, uno dei maggiori studiosi del genio rinascimentale fiorentino -: nel corso di quel viaggio infinito che è la storia della sua vita, mai Leonardo ha potuto visitare l’Isola. Ma la conosceva, e bene, dalle pagine dei libri a cui si rivolgeva la sua inesausta curiosità del mondo: la Naturalis historia di Plinio il Vecchio, l’Acerba di Cecco d’Ascoli, La sfera di Leonardo e Goro Dati, le Metamorfosi di Ovidio e naturalmente la Commedia di Dante».
Vecce insegna Letteratura italiana contemporanea all’Università "L’Orientale" di Napoli ed è socio dell’Accademia dei Lincei e dell’Academia Europaea. Di Leonardo ha curato l’edizione critica del “Libro di pittura” e del “Codice Arundel”, oltre a molti altri saggi, e all’allestimento di mostre in musei e istituzioni come il Louvre, il Metropolitan di New York, l’Ambrosiana di Milano, il Museo Galileo di Firenze, l’Università di Stanford e il Max Planck Institut di Berlino». Invitato a tenere la prolusione della cerimonia d’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università di Catania, lunedì 30 settembre, ha scelto di regalare subito al pubblico una suggestione tutta “made in Sicily”, anzi made in Etna.
In uno dei suoi più bei frammenti letterari, Leonardo immagina proprio di trovarsi in Sicilia, sulle pendici del Mongibello, come fece invece veramente il suo grande amico Pietro Bembo, a lui affine in quanto a curiosità naturalistiche, nel 1493 riportando poi le sue osservazioni nel dialogo “De Aetna”: un testo scritto in forma di dialogo tra lo scrittore e il padre Bernardo (che commissionò a Leonardo il ritratto di ‘Ginevra de’ Benci’) in cui si narra dell'ascensione sulla cima del vulcano durante un’eruzione.
“Non fa sì gran muglia il tempestoso mare – scrive Leonardo -, quando il settantrionale aquilone lo ripercuote, colle schiumose onde fra Scilla e Cariddi; né Stromboli o Mongibello quando le zolfuree fiamme, essendo rinchiuse, per forza rompono e aprono il gran monte, fulminando per l’aria pietra, terra, insieme coll’uscita e vomitata fiamma; né quando le ‘nfocate caverne di Mongibello rendan il mal tenuto elemento, rivomitandolo e spingendolo alla sua regione con furia, cacciando innanzi qualunche ostacolo s’interpone alla sua impetuosa furia”.
Il prof. Carlo Vecce durante la lectio magistralis in occasione dell'inaugurazione dell'anno accademico
C’è tanto Dante in queste righe, ha osservato il prof. Vecce. «La muglia – ha detto -, il terribile rumore del mare in tempesta nello Stretto rappresenta la stessa bufera infernale che trascina le anime di Paolo e Francesca a metà del Canto V della Divina Commedia: ‘mugghia come fa mar per tempesta, se da contrari venti è combattuto’. Anche Leonardo, poi, salendo sulla montagna di fuoco, giunge fino all’entrata di una grande caverna oscura, simbolo dei grandi misteri della natura che il ricercatore si sforza di scoprire».
“E tirato dalla mia bramosa voglia, vago di vedere la gran copia delle varie e strane forme fatte dalla artifiziosa natura, raggiratomi alquanto infra gli ombrosi scogli, pervenni all’entrata d’una gran caverna; dinanzi alla quale, restato alquanto stupefatto e ignorante di tal cosa, piegato le mie reni in arco, e ferma la stanca mano sopra il ginocchio e colla destra mi feci tenebre alle abbassate e chiuse ciglia e spesso piegandomi in qua e in là per vedere se dentro vi discernessi alcuna cosa; e questo vietatomi per la grande oscurità che là entro era. E stato alquanto, subito salse in me due cose, paura e desidero: paura per la minacciante e scura spilonca, desidero per vedere se là entro fusse alcuna miracolosa cosa”.
Per Leonardo, il monte di foco e di ghiaccio è manifestazione stessa della potenza della natura, dello scontro primordiale degli elementi. «L’Etna catturerà la sua attenzione anche negli anni successivi – afferma il prof. Vecce -, quando scriverà che il fuoco di Mongibello è nutrito ‘migliaia di miglia dentro alla sua uscita’ ed è proprio in quel luogo che risiede l’anima vegetativa della terra».
E se ‘la montagna’ gli appare come “un immenso corpo vivente, animato, dal quale fuoriescono con violenza venti esalazioni e torrenti di fuoco, che sembra respirare e gemere dalle sue enormi caverne, come se avesse un anima’; in tutta la sua opera, questa stessa visione Leonardo l’applica all’intero universo, con uno sguardo decisamente precursore.
«Per il genio fiorentino – ha ricordato Vecce -, l’universo è un mondo in continua metamorfosi, un immenso corpo vivente animato, un'unica quantità continua, senza distinzioni tra materia animata e inanimata, tra organico e inorganico un sistema interconnesso, sinergico e autoregolante, un po’ come venne descritto alla fine degli anni ’70 del Novecento nell’Ipotesi Gaia, formulata dagli scienziati James Lovelock e Lynn Margulis. «Un unico ecosistema, composto da un insieme di ecosistemi interagenti e simbiotici e di cui anche noi, minuscole ma molto dannose creature umane, facciamo parte».
«Questo è un messaggio che Leonardo ci comunica non tanto con la parola, ma con l’immagine nei disegni e nei dipinti – ha concluso lo studioso -, prima ancora che nei suoi ‘codici’: è sufficiente guardare i fantastici paesaggi nei quadri che esprimono questa profonda relazione degli esseri umani con la natura: nella “Vergine delle rocce”, nella “Sant’Anna”, nella ‘Gioconda’. È qui che possiamo cogliere la dimensione universale della sua attività, della sua ricerca e della sua opera».
Il prof. Carlo Vecce durante la lectio magistralis in occasione dell'inaugurazione dell'anno accademico