A “Ciak… Si Scienza!” il biopic de “L’uomo che vide l’Infinito” sulla vita del geniale matematico indiano che sfidò l’accademia di Cambridge
Geniale come Ettore Majorana, ‘fuori dagli schemi’ come John Nash, ma anche virtuoso come Mozart e visionario come Van Gogh, sebbene le sue espressioni, vergate su decine di quaderni, lui stesso le considerasse «una pittura di cui non tutti possono vedere i colori».
Srinivasa Ramanujan, matematico indiano dei primi del ‘900, «amico intimo di ogni numero intero positivo», come lo definiva il suo mentore Godfrey Harold Hardy, è stato il protagonista di una serata dedicata al cinema e alla scienza, nell’arena della “Città della Scienza” dell’Università di Catania.
Il biopic L’uomo che vide l’Infinito, realizzato nel 2015 dal sudafricano Matt Brown, ha regalato alla folta platea di questo nuovo appuntamento con la rassegna “Ciak… si Scienza! 2023”, promossa dall’Ateneo e dal Centro siciliano di Fisica nucleare e Struttura della Materia, numerosi spunti di riflessione e una ricostruzione abbastanza fedele del paludato ambiente accademico di Cambridge, all’inizio degli anni ’20.
Un contesto, quello del Trinity College, che aveva come nume tutelare il simulacro di Isaac Newton (qui genus humanum ingenio superavit, recita l’iscrizione ai piedi della sua statua), ma che tuttavia faticava a misurarsi con qualunque ulteriore istanza di innovazione, specie se proveniente da “un indiano”: autodidatta, per giunta!
Dopo la vita di Stephen Hawking, raccontata nel film “La Teoria del Tutto” di James Marsh, le vicende del ‘padre’ della Teoria evoluzionistica Charles Darwin, rappresentate in “Creation” di Jon Amiel, e la parabola plurisecolare del robot-elettrodomestico ideato da Isaac Asimov, un magnifico Robin Williams nell’”Uomo Bicentenario” di Chris Columbus, la rassegna ha voluto regalare al suo pubblico di attenti aficionados il ritratto di un altro protagonista della scienza moderna, meno mainstream rispetto al Nash di “A beautiful mind”, ma altrettanto emblematico.
Un frame del film "L’uomo che vide l’Infinito"
Indubbiamente romantico, per via della carriera fulminante e tremendamente breve di Ramanujan, spezzata dalla tubercolosi a soli 33 anni: «E’ la figura più romantica della più recente storia della matematica», afferma in apertura del film Jeremy Irons, a cui è affidato il ruolo chiave di Hardy, suo pigmalione che lo sosterrà fino alla clamorosa nomina a professore del Trinity e affiliato della prestigiosa ed elitaria Royal Society.
Dev Patel, il protagonista di The Millionaire, che stavolta indossa i modesti panni di Ramanujan, lo metterà più volte in crisi con il suo ambizioso talento, con le sue sorprendenti scoperte inizialmente non suffragate dalle canoniche ‘dimostrazioni’, con il suo afflato religioso, inconcepibile per un ateo e materialista convinto come il vecchio Hardy: «Io non cerco le formule – ripeteva il giovane genio indiano -, è la mia dea che me le suggerisce. Un’equazione per me non ha senso, se non rappresenta un pensiero di Dio.
D’altronde c’è uno schema in ogni cosa: il colore nella luce, i riflessi sull’acqua. Nella matematica questi schemi si rivelando nella più incredibile delle forme».
«Questo film offre diversi spunti per parlare di matematica al grande pubblico» ha premesso il prof. Francesco Russo, docente di Geometria nel dipartimento di Matematica e Informatica, che ha introdotto e poi commentato la pellicola.
Sullo sfondo di un ambiente accademico profondamente conservatore e prevenuto, in cui solo lo stesso Hardy, il collega Littlewood e Bertrand Russel cercano di mostrare che «il cambiamento è una cosa magnifica, e va abbracciato - ha aggiunto il docente - l’ispirato Ramanujan ci mostra la bellezza della matematica, ci fa sfiorare un mondo che per molti rimane misterioso e sorprendente, e come altri grandi della storia ci svela che questa talvolta può essere un’arte in sé e per sé, che rasenta una sorta di ‘platonismo matematico’, inafferrabile dai più».
In foto un momento dell'intervento del prof. Francesco Russo, al suo fianco la docente Alessia Tricomi
«Anche se lo scotto da pagare, in una società come quella inglese d’inizio Novecento, è la necessaria formalizzazione dell’idea, a cui si piega anche il progressista Hardy, attraverso le tanto esecrate dimostrazioni, senza le quali i ‘parrucconi’ di Cambridge continuerebbero a considerare Ramanujan niente più che un ciarlatano», ha sottolineato il prof. Francesco Russo nel suo intervento.
«Questo è però anche un film su Hardy – ha proseguito il prof. Russo, avallando la magistrale interpretazione di Irons -, sulla sua evoluzione innescata dallo smarrimento di trovarsi di fronte a un talento naturale, in grado di capire all’istante che anche l’insulso e tedioso’ numero 1729, esprime la valenza di essere il più piccolo numero che si possa scrivere come somma di due cubi in due modi diversi».
Hardy disse delle sue espressioni che «un singolo sguardo era sufficiente a mostrare che potevano solo essere state scritte da un matematico di altissima classe. Devono essere vere, perché se non lo fossero, nessuno avrebbe avuto l'immaginazione per inventarle».
Non tutti sanno che i quaderni dell’ex bambino prodigio Ramanujan, che lasciò la città di Madras, la religiosissima madre e la devota moglie per avere l’opportunità di comunicare al mondo le proprie scoperte, ci hanno lasciato centinaia di formule, legate principalmente alla teoria analitica dei numeri, alle sommatorie, alle partizioni. I suoi risultati hanno ispirato un gran numero di ricerche matematiche successive, di applicazioni nell’universo della fisica, e molte di queste vengono pubblicate ancora oggi dal “Ramanujan Journal”.
Un momento dell'intervento della prof.ssa Alessia Tricomi
Con le stelle a far capolino dietro la ciminiera della Città della Scienza, la suggestiva proiezione de L’uomo che vide l’Infinito, nell’ambito della rassegna a tema scientifico organizzata anche quest’anno con il consueto entusiasmo dalla prof.ssa Alessia Tricomi, responsabile della struttura museale di via Simeto e direttore del Csfnsm, ha quindi avuto il merito di riportare alla luce il confronto scientifico e culturale tra l’eccentrico Ramanujan e il suo mentore, della loro comune lotta contro pregiudizi, razzismo e disprezzo («Il grande sapere spesso proviene dalle più umili origini», affermò Hardy), degli sforzi per ottenere risultati che fino ad allora erano ritenuti impossibili da raggiungere e certificare come validi, ma anche dei loro personali e profondi momenti di crisi, così come li ha ricostruiti Robert Kanigel nel libro da cui è tratto il film.
Una frase, fra le tante, restituisce tutto il valore del protagonista del racconto, e di chi dedica la propria vita, spesso purtroppo immeritatamente breve, alla scienza: «Siamo semplici esploratori dell'infinito alla ricerca della perfezione assoluta – afferma Hardy, tessendo le lodi del suo giovane allievo -. Noi non inventiamo queste formule, esse esistono già... e giacciono in attesa che solo le più brillanti menti come Ramanujan possano intuirle e dimostrarle».