Il gruppo catanese Desperate Housewaifus ha "messo in scena" la riarticolazione dell’opera teatrale di Henri Müller liberamente ispirata alla tragedia di William Shakespeare
Dopo aver debuttato a gennaio al Teatro Coppola, è tornato in scena nei locali della Palestra LUPo La macchina Amleto del gruppo catanese Desperate Housewaifus.
La giovane band è composta da Edoardo Monteforte (curatore dei testi e voce della performance), Vittorio Auteri (tastiere, basso ed elettronica), Enrico Tabbacco (batteria) e Andrea Cable (chitarra e percussioni).
Il processo creativo dello spettacolo, durato due anni e definito da Auteri di «collage e istinto», vede la riarticolazione dell’opera teatrale Die Hamletmaschine di Henri Müller, pubblicata nel 1977 e liberamente ispirata all’Amleto di William Shakespeare.
Per Müller, i vari Amleto, Elettra e Ofelia sono personaggi-pretesti servibili per stimolare riflessioni su temi precisi, quali l’apocalisse, la fine dell’uomo, la nascita dell’automa e, tra distruzione e ricreazione, libertà, società, femminismo, corpi e spiriti alla deriva.
Sulla scena di La macchina Amleto tutt’intorno è buio. Drappi di tessuto bianco lacerato, abbandonati in penombra sopra a dei televisori a tubo catodico e a delle casse, perimetrano parzialmente uno spazio irregolare che esclude un fronte privilegiato.
Formando una figura romboidale, circondata dal pubblico all’impiedi, i quattro artisti stazionano immobili in un tableau vivant accompagnato da un patchwork di suoni e rumori riconoscibili, talvolta distorti, tratti da programmi televisivi e radiofonici e da opere cinematografiche.
Il tappeto sonoro ironico e, in contrasto, la posa seria dei corpi definiscono l’accesso alla performance, risucchiata in una dimensione disorientante.
«Io ero Amleto» sussurra la voce di Monteforte, mentre note musicali aggressive, gravi, dolci e acute si fondono a rumori generati da sintetizzatori o da strumenti inusuali (come il sinistro stridio dell’archetto del violino strofinato sul piatto della batteria). Ogni elemento della scena, organico e inorganico, è protagonista e veicolo espressivo della disforia dei personaggi raccontati.
Superata l’idea di realizzare uno spettacolo esclusivamente musicale, La macchina Amleto si presenta come un ibrido tra la forma concerto e la performance teatrale, un’opera complessa che pone in contrasto, ma anche ‘in matrimonio’ parole, suoni, rumori, corpi.
La temperatura scenica è quella di una lucida isteria, sapientemente articolata insieme all’impianto illuminotecnico e scenografico.
L’intento degli autori è un’invasione spaziale ed emozionale che cerca un effetto di ‘fusione’ con il pubblico. Inevitabile, allora, il collegamento al progetto di Antonin Artaud che nei primi anni del Novecento teorizzava un Teatro della Crudeltà focalizzato sulla soppressione di scena e sala per ristabilire una comunicazione diretta tra spettacolo e spettatore.
Viene così a tessersi un lungo filo rosso che da Artaud arriva agli anni Settanta di Müller, fino a raggiungere gli esperimenti musicali ibridi degli anni Novanta e i processi ‘di sintesi’ dell’elettronica contemporanea.
È seguendo questa traiettoria underground che La macchina Amleto aggiorna e scuote, pullulante di nuova sperimentazione, la scena performativa catanese.