La grande menzogna

Le indagini sullo stragismo politico-mafioso sono state le protagoniste, al Dipartimento di Scienze umanistiche, del monologo dello scrittore e giornalista Claudio Fava. Ad interpretare alcuni brani l’attore David Coco

Francesco Di Salvo

La grande menzogna riguarda il furto di verità che il paese ha subito sulla morte del giudice Paolo Borsellino, ridotta ormai a una serie di bugie, falsi testimoni, processi viziati e infiniti silenzi. Il testo non porta in scena la narrazione minuziosa del depistaggio, poiché non vuole essere un’operazione di teatro pedagogico della memoria: è innanzitutto un’invettiva.

Il protagonista è lui, Borsellino: raccontato non più – come di consueto - nell’agonia e nella morte, ma nella condizione risolta di chi non c’è più. Viene mostrato come un uomo rabbioso e diretto, che racconta con distacco e persino con ironia la realtà dei fatti e che invita ad andare oltre le verità fuorvianti.

E proprio su La grande menzogna di Claudio Fava è stato incentrato il quarto incontro del ciclo dei seminari d’ateneo "Territorio, ambiente e mafie - Dall'analisi del fenomeno mafioso alla cittadinanza attiva” che si è tenuto nei giorni scorsi nell’auditorium del Monastero dei Benedettini.

Insieme con l’autore del monologo, anche l’attore catanese David Coco che, nelle vesti di Paolo Borsellino, ha interpretato alcuni brani. Ad introdurre i due protagonisti dell’incontro è stata la prof.ssa Rosaria Barcellona, tra gli organizzatori del ciclo di seminari.

«In questo Paese bisogna ammazzare due volte, la prima quando ti fanno saltare in aria con settanta chili di tritolo, la seconda quando fanno a pezzi la verità come stelle filanti››. Questa, è solo una delle frasi del monologo che l’attore, con una carriera di oltre trent’anni alle spalle, ha letto rendendo al meglio il concetto.

Un momento del monologo di David Coco

Un momento del monologo di David Coco

A seguire il focus dell’incontro si è spostato sulle considerazioni dell’autore, il quale ha offerto numerosi spunti di riflessione. Entrando nello specifico, Fava – figlio di Giuseppe, fondatore de I Siciliani, ucciso da Cosa Nostra nel 1984-, ha invitato gli studenti ad aprire gli occhi sul depistaggio del caso Borsellino, raccontando dettagli che spesso vengono trascurati.

«Si è detto che Borsellino sia stato ucciso perché si era opposto alla scelta di chiudere l’inchiesta tra mafia e affari. Forse è stato ucciso per evitare che emergessero i rapporti tra mafia e grandi imprese nazionali, forse perché aveva capito che era in corso una trattativa tra Stato-mafia, forse perché sapeva cosa si nascondesse dietro l’omicidio di Falcone. Non poteva restare in vita perché rischiava di compromettere un sistema complesso», ha aggiunto lo scrittore e giornalista per il Corriere della Sera, l’Espresso, l’Europeo e la Rai.

Dopo aver spiegato le ragioni dell’omicidio di Borsellino, Fava ha svelato alcune manovre sulle indagini relative ad esso. «La sera stessa in cui muore Paolo Borsellino, il procuratore di Caltanissetta decide di chiamare il Sisde, capeggiato da Bruno Contrada, e chiedendo una collaborazione alle indagini – ha spiegato -. Questo però era vietato dalla legge per una ragione: essi sono funzionalmente dipendenti dal potere esecutivo, non possono sostituire altri corpi di polizia, che tra l’altro a Palermo erano molto efficienti in quel periodo».

«Sei mesi dopo Bruno Contrada è stato arrestato a Palermo per collusione con la mafia - ha aggiunto -. Come è possibile che la procura di Caltanissetta abbia deciso di affidare la più grande indagine della storia Repubblicana proprio a Bruno Contrada, lo stesso agente che in quegli stessi giorni era condannato per collusione mafiosa?»

La risposta a questo interrogativo ci viene fornita nelle successive dichiarazioni di Claudio Fava: «I Servizi Segreti sono stati ingaggiati con l’obiettivo di trovare un falso testimone, che potesse sviare l’andamento delle indagini. Il profilo ideale è stato individuato in Vincenzo Scarantino: un ragazzo fragile e analfabeta che in realtà non aveva nulla a che fare con Cosa Nostra, ma che diventa il punto di riferimento dell’inchiesta sulla morte di Paolo Borsellino».

Un momento dell'incontro

Un momento dell'incontro

«Una delle prime ad accorgersi del depistaggio è stata Ilda Boccassini, magistrata milanese aggregata nelle ricerche di Caltanissetta – racconta Fava -. Prima di ripartire per Milano ha scritto una lettera in cui sosteneva di dover fermare le indagini su Scarantino e, di conseguenza, rivedere tutto l’impianto accusatorio costruito fino a quel momento. Questa lettera però è sempre rimasta nascosta negli archivi della procura di Caltanissetta e non è mai stata resa nota».

«Della lettera se ne riavrà notizia ben quattordici anni dopo, solo quando Gaspare Spatuzza - pentito reale di Cosa Nostra - decide di collaborare con la giustizia, scagionando Scarantino e aprendo le indagini per depistaggio», aggiunge il giornalista.

«Tuttavia, gli oltre 120 testimoni ascoltati durante il processo per depistaggio fra i quali- magistrati, poliziotti, agenti dei servizi segreti- si sono chiusi in degli imbarazzanti e colpevoli “non ricordo”. Così la ricerca della verità è stata lasciata esclusivamente sulle spalle dei familiari», spiega Claudio Fava che conclude il discorso ponendo una domanda provocatoria: «Perché vi siete accontentati di quelle falsità?»

Sulla questione si è espresso il giornalista Peppino Lo Bianco: «In questo Paese si è sempre tentato di tenere le stragi su una dimensione esclusivamente mafiosa». Ha poi proseguito evidenziando che «la strage di via D’Amelio non si può comprendere se non si ha chiaro che cosa succedeva in Italia nel 1992 e cosa si metteva in gioco dal punto di vista istituzionale». «Con quelle bombe si stava ristrutturando il rapporto tra mafia e politica», ha aggiunto.

Nel dibattito è intervenuta anche Adriana Laudani, presidente dell’associazione antimafia “Memoria e Futuro”, che si è soffermata su questo punto. «Spesso abbiamo la tendenza di declassare le cause dei delitti politici, ad esempio quelli di Borsellino o Mattarella, come esclusivamente opera della mafia – ha detto -. Ma c’è una cifra che accomuna queste stragi: vengono uccisi tutti coloro che attingono alla conoscenza della criminalità organizzata, poteri economici forti e pezzi della politica e dello Stato».

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