Al Teatro Brancati e al Piccolo Teatro di Catania è andato in scena lo spettacolo dell'autore e regista Claudio Fava con l'attore David Coco che ha interpretato il ruolo del giudice Paolo Borsellino
Nell’oscurità del teatro una piccola scintilla di luce si accende piano, lentamente. Un puntino rosso che ora si rinvigorisce ora si attenua, senza spegnersi mai del tutto. Qualche istante dopo, all’accendersi dei riflettori di scena, ne viene svelata la sorgente.
Un uomo solo siede a un tavolo al centro del palcoscenico, mentre fuma svogliatamente una sigaretta: da essa proviene quella piccola luce.
Attorno a lui una distesa di manichini caduti, o meglio di pupi in attesa di prendere vita tra le mani del padre puparo.
L’identità dell’uomo sarà svelata soltanto qualche attimo dopo, quando egli, infrangendo la quarta parete, si rivolgerà direttamente al pubblico, scusandosi per la sigaretta accesa e (pur continuando a fumare) presentandosi: è il giudice Paolo Borsellino. In vita era solito fumare due pacchetti di sigarette al giorno, credeva l’avrebbero ucciso prima o poi, tuttavia non è stato così.
Magistralmente interpretato da David Coco (che lo ricorda anche per un’incredibile somiglianza fisica), Borsellino adesso si ritrova, dopo la morte, in una sorta di limbo, in un “aldiquà” dove non trova ancora riposo a causa dei tanti, troppi, conti in sospeso.
Il racconto scenico (dell'autore e regista Claudio Fava) prende avvio dal 19 luglio 1992, dall’esplosione della Fiat 126 che ridusse in brandelli il suo corpo e quello di altri quattro uomini e una donna della scorta, recuperati da un uomo giunto con un secchiello; poi d’un tratto s’arresta: «Bisogna cambiare storia – si dice –, il pubblico è ben informato al riguardo. Cosa raccontare allora?».
David Coco interpreta Paolo Borsellino
Borsellino-Coco esce per qualche istante e rientra con un microfono e un’asta, la sistema alla sua altezza, poi inizia a svelare gli inganni, i paradossi e le incongruenze nascosti dietro a un processo tanto finto quanto il suo agnello sacrificale: Vincenzo Scarantino, “pupo” perfetto su cui far ricadere ogni colpa, eppure «un pupo talmente poco credibile che anche un bambino se ne sarebbe accorto».
Borsellino-Coco squarcia il velo dell’ipocrisia, smascherando un governo che accetta di buon grado un pupo fantoccio pur di mantenere la sua “faccia” pulita – perché «le istituzioni devono uscire immacolate» - e preferisce far condannare innocenti piuttosto che ricercare la verità.
Intanto Salvatore Cancemi, mafioso “vero”, l’aveva già capito e aveva smascherato Scarantino: dopo averlo squadrato per qualche minuto, aveva concluso che quello non poteva essere un vero boss. Il verbale del loro incontro, però, troppo scomodo per resistere al tempo, sparisce, si perde, come già accaduto ad altre prove, coriandoli in una nebulosa di inganni.
Borsellino-Coco, tuttavia, non si rassegna, e anzi coinvolge nella sua riflessione il pubblico indolente, abituato ad accettare “verità” giunte dall’alto e accolte passivamente come dogmi. Il personaggio si scontra con un pubblico che ha smesso di fare e farsi domande, che ha perso l’abitudine di dubitare.
David Coco in una scena de La grande menzogna
Il magistrato, invece, si lascia andare a una serie di quesiti, molti dei quali retorici, venati dalla rabbia per la cecità mostrata difronte al tentativo riuscito di depistaggio, e di amarezza per i tanti, troppi anni trascorsi senza riuscire a ricostruire la verità, senza poter rintracciare quei fili invisibili tra le mani di pupari altrettanto invisibili. Borsellino-Coco cerca di restituire la complessità, spiegando anche che, per quanto possa esser più comodo e rassicurante pensarlo, dietro la mafia non si cela soltanto la mafia.
Per l’occasione il magistrato si fa puparo, e i manichini caduti attorno a lui nel corso dello spettacolo diventano i suoi pupi.
Tra questi vi sono il presunto colpevole Scarantino, il capo della Squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera e il Procuratore capo di Caltanissetta Giovanni Tinebra. Vengono tirati su, mossi, fatti ballare e resi vivi, “fantocci in carne ed ossa” che lo aiuteranno per il suo cunto de li cunti, racconto degli inganni e delle ipocrisie, quella grande menzogna che si cela dietro una data in cui siamo soliti commemorare il grande uomo.
Il monologo di Borsellino-Coco assume sin da subito le forme del dialogo, coinvolgendo i pupi che hanno innescato il più grande depistaggio della storia, a cui l’attore presta, modulandoli, corpo e voce.
Il passaggio è sottolineato anche dal sapiente utilizzo delle luci di scena: ora puntate soltanto sul mafioso “vero” Cancemi che, davanti al microfono come un imputato in tribunale, sconfessa Scarantino rivelandone la fallacia, ora volte a illuminare l’intero palco, rendendo ancora più evidenti i geometrici movimenti dei pupi-manichini, le loro alleanze e connessioni.
David Coco interpreta Paolo Borsellino
Se per l’intera durata dello spettacolo La grande menzogna – in scena nei giorni scorsi al Teatro Brancati e al Piccolo di Catania (vai alla presentazione in Retroscena 2024) - Borsellino-Coco assume come suoi interlocutori gli spettatori, verso la fine qualche parola la rivolge anche ai propri figli, in particolare a Fiammetta.
Essi si sono adoperati instancabilmente nella ricerca della verità, tuttavia dapprima sono stati illusi e ingannati sui risultati delle indagini (che avrebbero dovuto rendere giustizia alla memoria del padre e recare conforto ai loro cuori dolenti), poi sono stati progressivamente messi da parte e ignorati, poiché continuavano a sollevare domande scomode e ulteriori dubbi.
Infine, perché troppo insistenti e incapaci di accettare quella (parvenza di) verità, i figli del magistrato sono stati considerati «pazzi, folli»: «dopo la morte del padre hanno perso la testa».
Coco-Borsellino se ne duole e ancor più si dispiace che la sua morte abbia avuto la meglio sulla sua vita, un’esistenza condotta con dignità, integrità e perseveranza, credendo sempre nei propri ideali.
Adesso che si è ridotto a eroe/martire, è diventato anche icona, amuleto, simbolo, uomo da compiangere una volta l’anno, per cui versare qualche lacrima o a cui dedicare una preghiera, da commemorare con film (circa una dozzina) e documentari.
Ecco allora che Borsellino qui ritorna per reclamare «una degna sepoltura», possibile soltanto grazie al raggiungimento di quella tanto agognata verità, una piccola scintilla rossa accesa nell’oscurità: la vita potrà tornare a prevalere sulla morte.