Nicol Oddo, dottoranda in Scienze per il patrimonio e la produzione culturale al Dipartimento di Scienze umanistiche di Unict, racconta del controverso personaggio di Tàr, direttrice d’orchestra e donna dai timbri chiaroscuri, protagonista del film di Todd Field
«Il film non è stato scritto avendo Cate Blanchett in mente. È stato scritto per Cate Blanchett», così il regista Todd Field ha aperto la conferenza stampa di Tàr presentato in concorsolo scorso settembre alla Biennale cinema e dal 28 ottobre disponibile in tutte le sale.
In quell’occasione, Blanchett ha vinto meritatamente il premio come migliore attrice. La sua performance, al tempo stesso misurata ed eccedente, ha incarnato il carattere labirintico del film nel quale l’obiettivo del regista non è offrire al pubblico una storia che susciti emozioni confortevoli. Al contrario, è un process movie disturbante e controverso.
Lydia Tàr (Cate Blanchett) è un’etnomusicologa, una moglie, una direttrice d’orchestra, dichiaratamente lesbica, una musicista ambiziosa, vincitrice EGOT (Emmy, Grammy, Oscar e Tony), una madre (o, come si definisce: un padre) e la prima donna a dirigere la Filarmonica di Berlino.
È anche narcisista, paranoica, manipolatrice, misofobica e perseguitata da sé stessa e dal suo passato. Tutte queste caratteristiche rendono la protagonista un essere umano ambiguo con cui anche il pubblico trova difficile rapportarsi.
La sceneggiatura di Field racconta il crollo della vita e della psiche di Tàr incirca tre settimane in cui la direttrice sta presentando un libro su di sé (Tàron Tàr) e, allo stesso tempo, completando la conduzione del ciclo di Mahlercon l’Orchestra filarmonica di Dresda.
Il ritmo cadenzato fra momenti di apparente quiete e momenti di forti torsioni della narrazione (anche oniriche in qualche scena) è scandito dalle dinamiche di potere esterne e interne, più che relazioni, tra Lydia Tàr e le altre personagge. Sharon (Nina Hoss) moglie e collega della direttrice, Francesca (Noémie Merlant) l’assistente personale e Olga (Sophie Kauer) una talentuosa giovane violoncellista dell’orchestra che Tàr sta dirigendo.
Di quest’ultima basta un’occhiata per far invaghire Tàr, la quale cerca in tutti i modi di sedurla come è solita fare. Qualcosa però va storto: non solo Olga non sembra cadere nella sua rete ma Lydia viene accusata di abuso sessuale a seguito del suicidio di una sua allieva-amante, Krista Taylor (Sylvia Flote).
Altri due elementi che Field assimila bene, senza sfociare nel retorico, sono le tematiche della cancel e della digital culture.
«The narcissism of small differences leads to the most boring conformity» fa dire a Lydia Tàr durante una masterclass a dei giovani direttori riferendosi alla presa di posizione da parte di uno studente nel voler evitare lo studio di Bach in quanto etichettato come misogino.
Mentre le numerose inquadrature sull’uso dei social media, della posta elettronica e della pagina di Tàr su Wikipedia sono pensate per rimarcare l’alone di ambiguità pubblica e privata che permea le scene e la vita passata della protagonista.
La partitura musicale resta un luogo sicuro e delimitato di cui Tàr conosce ossessivamente i ritmi. È l’unica parte prevedibile della sua vita a differenza di quella delle relazioni umane che necessita di un andamento armonico, di scambi nella ‘direzione’ e fiducia reciproca.
Sul finale, vediamo Lydia Tàr condurre l’orchestra di un paese anonimo del sud-est asiatico essendo stata rimossa dalle sfere della musica classica occidentale. In questo nuovo ambiente, cerca di trarre ispirazione dall’entusiasmo del suo mentore Leonard Bernstein di cui ha riscoperto una videocassetta dei suoi Young People’s Concerts.
Field vuole comunicare una redenzione della protagonista? O persevera nella sua realtà alienata? Allo spettatore l’ardua sentenza.