Al Teatro Stabile di Catania lo spettacolo di Emma Dante. Andato in scena per la prima volta nel 2020, sta riempiendo da quattro anni i teatri così come le aspettative del pubblico
«Perché la donna non è cielo, è terra, carne di terra che non vuole guerra: è questa terra, che io fui seminato, vita ho vissuto che dentro ho piantato, qui cerco il caldo che il cuore ci sente, la lunga notte che divento niente»
Emma Dante ha scelto di inserire tra le note di regia del suo Misericordia alcuni versi di Ballata delle donne di Edoardo Sanguineti. Parole che, riportate sul foglio di sala, fungono da avvio dello spettacolo. Andato in scena per la prima volta nel 2020, Misericordia da quattro anni riempie i teatri così come le aspettative del pubblico, soddisfatte anche per chi, della regista palermitana, ha solo sentito parlare o ha visto appena un’opera teatrale o filmica.
A inizio 2024 è difatti uscita la versione cinematografica di Misericordia (terzo lavoro di Dante per lo schermo dopo Via Castellana Bandiera del 2013 e Le sorelle Macaluso del 2020), che attraversa la storia di Arturo in un modo ancora nuovo, in cui lo sguardo personalissimo della regista viene sapientemente adattato al linguaggio della settima arte.
Una scena dello spettacolo
Sulla scena dello spettacolo, qui rappresentato al Teatro Stabile di Catania, sono presenti tre donne e un ragazzino, “umani-contenitori” in cui è condensato uno sfaccettato archivio di emozioni, paure e speranze che possiamo considerare comun denominatore di ogni individuo. In scena vi è una storia, una favola contemporanea come scrive Dante, lunga una vita ma cristallizzata in una giornata “speciale”.
Quattro sedie pieghevoli di legno costituiscono l’arredamento del monovano che condividono le tre donne e prostitute (Italia Carroccio, Manuela Lo Sicco, Leonarda Saffi). Oggetti vari e variopinti – ciarpame, cianfrusaglie o “munnizza” – sono posizionati in fila alle sedute. Qui le donne iniziano a tessere con i ferri producendo, attraverso i loro movimenti frenetici, un suono iperattivo su cui danza Arturo (Simone Zambelli), il figlio menomato di Lucia che dandolo alla luce ha lasciato il mondo e le sue tre compagne. Il fanciullo, bianchissimo e ossuto, sembra muoversi grazie a quella partitura metallica scaturita dal lavoro delle donne, come fosse il pupazzo invertebrato di un carillon.
Attraverso il montaggio di più scene eterogenee, ma perfettamente consequenziali le donne si disvelano al pubblico. All’inizio farfugliano pettegolezzi incomprensibili, ridono di gusto, bisticciano tra loro (con l’accento palermitano di Carroccio e Lo Sicco, mentre è pugliese quello di Saffi) per il presunto furto del companatico di un panino. Questa accusa ingenua è il pulsante di avvio allo sprigionare di emozioni profonde, sedimentate e arcaiche: disagio, disperazione, stento.
Una scena dello spettacolo
Il ricordo dell’annuncio di Lucia di essere in attesa di un bambino dà avvio a un momento danzante di corpi e giocattoli festosi e carnevaleschi, accompagnato dalla canzoncina Ma che bel castello. Come un cambio di scena ottocentesco e sfarzoso, l’aria pullula di gioia e colori per poi rimpiombare nel buio.
«Lucia doveva abortire», dice una delle donne, «così non sarebbe morta». Il padre di Arturo, detto Geppetto, spiega poi Anna, è un falegname produttore di cassette per il mercato ortofrutticolo che aveva la passione di rimanere da solo con la “sua” donna per riempirla di botte. Dopo l’ennesima pestata, Lucia partorisce il suo bambino prematuro lasciando il mondo.
In un altro cambio di temperatura di scena, una sequenza evoca la scansione delle sedute lavorative delle sex workers (che si lavano, si vestono), un harem elettronico travolge la visione ma anche l’olfatto stuzzicato dall’odore di deodorante spruzzato in aria, che diventa amaro in gola. Ogni senso è coinvolto in questo bordello. Nelle sfilate sessualizzate delle donne, Arturo con il suo pannolino imita le sue mamme, si sculaccia con fare seducente eppure incredibilmente ingenuo.
Così il fanciullo vive con le sue tre donne-madri, le quali lo accudiscono con amore e lo crescono come possono. Si muove praticamente sempre: da seduto con un ritmo binario avanti e indietro o vorticosamente, instancabile come un danzatore sufi. Il ragazzo esile e barcollante sembra un San Sebastiano che ha soltanto la “colpa” di essere nato ma appare impermeabile alla miseria che lo circonda, cogliendone solo gli aspetti più leggeri, più vitali.
Una scena dello spettacolo
Imita il suonatore di gran cassa quando la banda, che adora, passa davanti alla casa. In quel giorno cristallizzato cui assistiamo Arturo verrà preso in affido da “una specie di convitto”, così le donne preparano per lui la valigia con dentro tutti i suoi umili averi, feticci raccolti nel corso della sua vita (come i dentini da latte e il cuscino della sua culla). Non è un giorno qualsiasi, è quel giorno in cui Arturo – come Pinocchio che diventa un bambino vero – miracolosamente si veste da solo e saluta le sue mamme.
I corpi sono questo spettacolo. Carroccio, Lo Sicco e Saffi sono tre presenze magistrali e insieme a Zambelli hanno la capacità di “strattonare” le spettatrici e gli spettatori e di creare un’empatia di pura misericordia. Sono infatti come spugne strizzate e gocciolanti di memorie, storie palpabili di disagio e gioia. Talmente forte e riuscito, il loro agire scenico è accostabile alle fotografie, alle didascalie e alle parole di Letizia Battaglia e Goffredo Fofi raccolte nel volume Volare alto volare basso, conversazioni, ricordi e invettive (Contrasto, 2021).
Ricordiamo in particolare una fotografia che riporta la didascalia: “Questa donna e i suoi bambini stanno sempre a letto, in casa non ci sono né luci né acqua, Palermo, 1978”.
Misericordia è una favola contemporanea, ma la sua ispirazione non è affatto astratta, è ferocemente reale. La città di Palermo conosce bene questa realtà, così come la conoscono bene troppi luoghi del mondo lacerati dalla povertà, dalla violenza di genere, dalle difficoltà. Luoghi fisici e corpi che urlano l’urgenza di misericordia e di vicinanza.