Il Giardino dei Ciliegi di Čechov incanta Catania

Al “Piccolo” è andata in scena l’opera di uno dei più importanti autori internazionali meno rappresentati nella città dell’Elefante 

Rita Re
Un momento dello spettacolo
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Un momento dello spettacolo

Il titolo dell’opera, come un’insegna al neon, si staglia sulla scena grigia e spoglia curata da Vincenzo La Mendola attorno alla quale ‘danzano’ i protagonisti. Una storia che racconta da una parte le ragioni di chi quell’insegna vuole ancora tenerla accesa a segnalare l’esistenza, o anche solo il ricordo di qualcosa che non esiste più; dall’altra, chi vorrebbe spegnerla per fare spazio a qualcosa di nuovo. In altre parole, l’eterno contrasto tra giovani e anziani, tra conservatori e innovatori, tra vecchio e nuovo.

È anche per questo che certi autori restano immortali, perché attraversano i tempi in scioltezza, come se fossero autori sempre-vivi, contemporanei e persino conterranei. La Russia di Anton Čechov può essere qualunque altro posto nel mondo, Il giardino dei ciliegi qualunque altro bene nel mondo. E Čechov è uno scrittore che racconta qualunque luogo nel mondo che vede.

Partendo da questi presupposti, la scrittura scenica del Giardino dei ciliegi, andato in scena al Piccolo Teatro della Città di Catania grazie all’omonimo Centro di produzione, riesce a catturare senza sforzo l’attenzione del pubblico. Nessun dettaglio è anacronistico, nessun personaggio è troppo sopra le righe ma tutti sono pezzetti di mondo in cui ogni spettatore si riconosce secondo la sua sensibilità. Di fronte ad un testo che tratta temi immortali, dunque, l’attualizzazione in termini visivi e di ascolto è tutta nelle mani del regista Nicola Alberto Orofino e degli attori su cui egli ripone fiducia e idee.

È un giardino dal sapore “mediterraneo” nell’atmosfera scenica, così lo appella il regista, legato a questo testo e a Čechov sin dai suoi primi esordi.

Un momento dello spettacolo

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«Sono entrato alla scuola del Piccolo di Milano – racconta il regista Nicola Alberto Orofino – portando il personaggio di Lopachin; sono uscito dalla scuola recitando nel Gabbiano e poi il mio esordio alla regia è stato proprio con la stessa opera. Oggi, che porto in scena il Giardino, ho avuto una proposta che può diventare qualcosa di grande, non lo so. Čechov ha sempre segnato per me dei momenti di passaggio importanti; immagino che anche questo lo sarà, ma non so ancora in che senso, vedremo».   

L’eccezionale cast del Giardino si è fatto portavoce di una rilettura «svecchiata» del lavoro dell’autore russo senza una sbavatura, né una stonatura. Su di una fune, perennemente in bilico, hanno raccontato lo disequilibrio umano; quel momento, cioè, in cui una qualunque storia diventa vita e si fa interessante per sé e per gli altri. È il principio cardine su cui si fonda il teatro, a partire proprio dalle opere di Čechov che ispirano il lavoro sull’attore di Konstantin Sergeevič Stanislavskij e Vsevolod Ėmil'evič Mejerchol’d; il crollo di una certezza ci conduce inevitabilmente a trovare una nuova stabilità e tre nuovi punti di appoggio.

Frutto di un affiatamento decennale fra gli attori e di una certosina conoscenza del testo e dell’autore da parte del regista, quest’adattamento čechoviano ha il sapore di una tela sulla quale ciascuno di loro traccia il proprio colore, la propria linea; in un groviglio giocoso e confuso di paure, ricordi, dolori e speranze.

Gli atti diventano quattro quadri, quattro immagini, dentro ognuna delle quali ciascun personaggio cerca il proprio posto che sia in un luogo o anche solo all’interno della famiglia. A fare da sottofondo musicale allo spettacolo c’è la passione, il lamento e il riscatto di Desde el alma, tango vals della compositrice argentino-uruguaiana Rosita Melo, alla cui melodia triste e romantica è affidata la ‘melanconia’ che attraversa ognuno di questi quadri, che sia il ritorno a casa, la gita al fiume, la festa o la ripartenza.

Un momento dello spettacolo

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Il testo recita: “Anima, se tanto ti hanno ferita, perché ti rifiuti di dimenticare? Perché preferisci piangere ciò che hai perso, cercare ciò che hai amato, chiamare quello che è morto?”. È proprio questo continuo disequilibrio di sentimenti che cattura lo spettatore.

Si rimane basiti ad ascoltare Epichodov (Vincenzo Ricca), il maldestro contabile che si esprime sempre e solo attraverso canzonette ripetitive e monocordi. Si resta ugualmente straniti di fronte alle confessioni strazianti della svanita Ljuba, nella tragica ed emotivamente immobile interpretazione di Luana Toscano, spogliata del ruolo di protagonista che il teatro dei grandi attori del Novecento le aveva assegnato, per essere riconsegnata a quello originario, di una fra i tanti.

Ci si ritrova perplessi nel cercare di comprendere perché proprio Lopachin (Daniele Bruno che ne restituisce perfettamente l’immagine scomposta, imbarazzata e ignorante del figlio del servo), l’unico che avrebbe tutte le ragioni per agevolare la vendita all’asta della proprietà per lottizzarla e farne dei villini, sia invece il solo che prova ad impedirlo. Anche lui, che è il simbolo del cambiamento, del crollo dell’aristocrazia e dell’affermazione del proletariato, “preferisce piangere ciò che è morto”.

In questa giostra di personaggi, le stravaganze e la leggerezza di Leonid Gaev, fratello di Ljuba, stonano col resto e per questo diventano fondamentali per dare senso al non-senso del personaggio che l’attore Francesco Bernava veste con una studiata disinvoltura.

Ci sono poi i colori vividi di personaggi come la governante tedesca Šarlotta, nella quale l’attrice Carmela Silvia Sanfilippo, di origini tedesche, brilla per tecnica e bravura. Lucia Portale veste i panni di Piscik, un proprietario terriero in versione femminile che è un’amica di famiglia, impasticcata, sempre in cerca di prestiti. Divertente, possente e padrona della scena, l’attrice si diverte e fa divertire. 

Un momento dello spettacolo

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Sullo sfondo vi è l’intreccio amoroso di Duniaŝa e Jaŝa, rispettivamente Alice Sgroi e Alberto Abadessa. La prima, corteggiata dall’imbranato Epichodov, si getta tra le braccia dell’affascinante Jaŝa, un po' per sfuggire all’altro, un po' per sfuggire a sé stessa, un po' per fuggire dal giardino.

L’interpretazione disinibita e provocante, nonché l’aspetto stesso dell’attrice che non nasconde tatuaggi e piercing è anelito di modernità; un tentativo di cambiare status e di cavalcare la rivoluzione che Čechov aveva già previsto nel 1905, anno di composizione dell’opera. Di contro, Jaŝa sfoggia uno sguardo altezzoso, un atteggiamento schivo e giudicante, servo anche lui, che non intende rimanere ancora per molto in quel giardino così lontano dalle opportunità della vita mondana parigina.

Le due sorelle Varja e Anja, infine, sono i due estremi; la partenza e l’arrivo, l’inizio e la fine. Varija è Egle Doria, vestita di nero, seria e composta, con le chiavi della proprietà in mano; aspetta che la sorte le arrivi addosso. Anita Indigeno è la sorella Anja, sguardo pulito e voce chiara, il nuovo, giovane e fresco che avanza; è vestita in salopette di jeans e piange per il giardino perso ma in questa perdita riconosce il guadagno di una nuova possibilità. La giovane è inoltre innamorata dello studente Trofimov, nella brillante interpretazione di Luigi Nicotra, con cui andrà incontro al futuro.

Sarà la vita ad affermarsi: “Accanto al dolore che apre una ferita, viene la vita portando un altro amore”. Ancora una volta le parole della canzone, cantate a cappella o affidate alla versione strumentale del compositore Osvaldo Pugliese, tornano a dare senso a tutto. Chiudono la terza delle scatole cinesi che contiene l’opera, come la descrisse Giorgio Strehler, cioè la scatola più grande, l’involucro esterno, quello dell’umanità, con i suoi temi eterni: la nostalgia dell’infanzia, il dolore, la paura della perdita, l’inesorabilità del tempo.

Un momento dello spettacolo

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Una scatola che contiene a sua volta quella più piccola della storia quindi, della decadenza dell’aristocrazia e dell’emergere del proletariato; dentro ve n’è un’altra, ancora più piccola, ma necessaria allo stesso modo, quella della vita quotidiana in cui si snodano i piccoli drammi esistenziali dei personaggi.

Il vento gelido che si abbatte sugli operai che hanno iniziato a tagliare il giardino, ormai proprietà di Lopachin, per fare spazio a dei nuovi e moderni villini, accompagna la frenesia della fuga da quel posto che era prigione per tutti. Continuerà a rimanerlo per l’ultimo anelito di aristocrazia, quello di Firs, il vecchio e malato maggiordomo (interpretato da Giovanni Zuccarello) che resterà solo e dimenticato nella casa deserta.

L’insegna verrà dismessa e imballata in scatole di cartone; tutti porteranno via dalla scena un pezzo tranne Gaev, l’unico forse che non ha ancora immaginato, fuori dal giardino, la possibilità di un nuovo equilibrio. Eppure, andrà via anche lui, trascinato fuori, ancora una volta, dalla vita che accade.

Nello spettacolo di Orofino ogni attore ha in sé qualcosa del personaggio e si vede quel quid che ha dato alle interpretazioni di ciascuno quella verità che non si riesce facilmente a trovare sulle scene teatrali. Frutto dell’incontro magico e raro tra una compagnia variopinta e affiatata, un regista ispirato e un testo che è sempre pagina bianca su cui scrivere.