L’applauditissima Trilogia dell’estasi, in scena al Bellini di Catania, fa emergere le contraddizioni della società contemporanea attraverso i capolavori di Debussy, Ravel e Stravinskij
La Trilogia dell’Estasi ha tenuto incollati alle poltroncine rosse del Teatro Massimo Bellini di Catania oltre 6 mila spettatori in pochi giorni di messa in scena. Un progetto in rete realizzato con la collaborazione della Fondazione Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, la Compagnia Zappalà danza e Scenario Pubblico, il Centre Choreographique National de Lion e i teatri di Reggio Emilia, Catania, Lucca, il MilanoOltre Festival di Milano, la Fondazione Teatri di Piacenza, la Fondazione Ravenna Manifestazioni.
Lo spettacolo ha raccontato una società dell’apparire fatta di erotismo dietro rituali sociali che mettono alla deriva l’autenticità dell’uomo e della donna. Luci rosse e blu, miste a fari di luce bianca per mostrare spazi del nascondimento sociale e profondamente stranianti. Costumi e scenografie che avvolgono i corpi, narrano le emozioni sottese alle musiche dei tre grandi capolavori del panorama avanguardista musicale della prima metà del Novecento di Debussy, Ravel e Stravinskij. Abbiamo incontrato l’ideatore di questo importante opera, il regista e coreografo, Roberto Zappalà, a cui abbiamo chiesto alcuni approfondimenti.
Come mai questo lavoro ha avuto bisogno di un lungo periodo di dieci anni di “gestazione” prima di essere messo in scena?
«Si è trattato di un lungo periodo di riflessione poiché il confronto con questi capolavori e il tipo di lavoro che volevo mettere in opera, è stato complesso – racconta Roberto Zappalà -. Diversamente dalla lirica, in cui i drammi che si mettono in scena sono opere che si ripetono inesorabilmente uguali dalla loro prima (Norma, Tosca, Bohème per citarne alcuni) e difficilmente vedremo opere liriche nuove, originali; la danza contemporanea viaggia anni luce avanti rispetto alla lirica e abbiamo la possibilità, oltre che il dovere, di rinnovare i linguaggi. Nel momento in cui ho avuto la consapevolezza di cosa doveva accadere, io e Nello Calabrò, il mio drammaturgo, abbiamo lavorato affinchè si potesse realizzare l’idea di mettere in scena i tre capolavori nella stessa serata, creando un’unica opera che abbiamo intitolato “Trilogia dell’estasi”. Sono tre momenti diversi, come una sorta di tre quadri dal punto di vista musicale ma sono anche “quadri iconici” sotto l’aspetto della danza perché sia L’après-midi d’une faune, che il Bolero che Le Sacre du printemps, sono stati messi in scena in ordine da Nižinskij, Béjart e Bausch (per citare i più famosi)».
Un momento dello spettacolo
Trilogia mi fa pensare a qualcosa tre elementi che costituiscono un’unità, così come in arte il trittico è costituito da tre quadri distinti ma che si completano nell’unione fra essi. Perché ha pensato proprio a questi a questi tre capolavori: L’Après-midi d’une faune di Debussy, il Bolero di Ravel e Le Sacre du printemps di Stravinskij?
«Nella danza il termine “trittico” solitamente è usato per intendere tre lavori diversi in un’unica serata; il termine “trilogia”, invece, si usa per indicare un progetto unitario. La Trilogia dell'estasi è un progetto di cui l'estasi è il principio, è l’idea, il fil rouge fra i tre capolavori – aggiunge il coreografo -. La scelta di questi tre capolavori? Beh, io volevo già lavorarci, ma quello che ha creato attrazione è stato il mio modus operandi, ovvero la volontà – come lo raccontano tutti i miei lavori da oltre vent’anni – di creare una connessione, un dialogo tra le opere e la società, facendone emergere una “critica” sul nostro sistema territoriale. Lo si vede su Instrument Jam dove si parlava dell'arroganza in ambito maschile oppure in Siamo tutti devoti tutti in cui lavoro non su Agata ma sulla festa».
«Nei tre capolavori della Trilogia dell’estasi emergono tre temi importanti: il tema del sacrificio, il tema dell'erotismo, il tema dell'esclusione e della solitudine. L'erotismo è legato alla volontà di mettersi in mostra, evidente nella nostra società del momento che vive di vetrine, anche attraverso i social», continua Zappalà.
«Ciascuno dei tre lavori racconta dei tre temi, in qualche modo – spiega Roberto Zappalà -. Apres-midi parla soprattutto dell'erotismo, della sensualità estrema di questo fauno, ma anche della sua solitudine, quasi della sua autoesclusione; la stessa esclusione, vista ne Le Sacre, è invece legata anche al sacrificio perché c'è solitamente un’eletta, nel mio caso non c'è un eletta, ma tutto il popolo è l’eletto, inteso come tutta l'umanità, che si sacrifica e si posiziona come su un piedistallo su cui crocifigge i propri comportamenti; nel Bolero, citando esplicitamente Eyes Wide Shut di Kubrick, si evidenzia l'esclusione della figura femminile, ma di fatto l’escluso resta proprio il protagonista dentro un vortice rituale. Quindi ci sono tanti legami che il pubblico, probabilmente, non coglierà in toto perché un pubblico di massa non è abituato ai linguaggi contemporanei ma posso affermare, che già dalle prime due tappe del tour, a Firenze e a Milano, il pubblico ci ha regalato oltre 15 minuti di standing ovation».
«Il compito dell’artista contemporaneo è quello di rileggere il passato, in questo caso attraverso la musica, per tradurlo nel linguaggio del nostro presente -spiega -. Come regista, ho rispettato la musica non stravolgendo nulla dei tre capolavori ma, dovendo creare un trait-d’union fra i tre quadri era necessario legare il tutto con qualcosa che facesse entrare il pubblico in un’atmosfera un po’ speciale, inusuale magari. Il mio interesse è permettere allo spettatore di fantasticare, col piacere, o il dispiacere, di aver visto qualcosa che l’abbia fatto riflettere. Questo vuol dire lavorare sulla contemporaneità: emancipare il pubblico».
Un momento dello spettacolo
Parlare con un linguaggio assodato appiattisce le menti, causa ne sono i messaggi che sono letti e riletti. Poter lavorare con i linguaggi della contemporaneità ci spinge a riflettere su noi e sul nostro tempo, in cui si viaggia troppo velocemente e si trova più il tempo di soffermarci su quelli che sono i contenuti veri e su noi stessi. Cosa ne pensa?
«Le arti hanno questa possibilità ma credo anche che l'università abbia il compito di mettere al primo posto questa nuova riflessione. Le faccio un esempio su tutti: quando Nižinskij ha messo in scena questo capolavoro e ha cambiato la storia della danza a Parigi, è stato iper-criticato, poi è diventato una star e un’icona – continua Roberto Zappalà -. Oggi Parigi sale sul piedistallo della super intellettualità e del super prestigio per aver acquisito nel tempo il baluardo come icona della contemporaneità».
«Io non ho la pretesa di cambiare le cose, non sono Nižinskij, perché un cambiamento avvenga è necessario che vi siano critiche costruttive e che non “demonizzino” l’arte come strumento di comunicazione e di riflessione sulla società – aggiunge -. Io sono per la libertà assoluta dei linguaggi ma che ci sia anche un estremo rigore quando si presenta un’opera nella sua originalità, perché rappresenta il vero rispetto per l’artista (noi, infatti, non abbiamo agito sulla musica ma sui libretti che, all’epoca, sono stati elaborati dai coreografi; ciò non significa che la vera storia di quella musica, il suo messaggio abbia subito variazioni). Il compito del regista è di portare sul palcoscenico la contemporaneità con la complicità dei linguaggi dell’arte, la danza, la musica, le luci, la scenografia».
Leggere i significati che emergono da una performance di danza, e in particolare di danza contemporanea, non è semplice come nel teatro di prosa o nel melodramma; ciononostante nel corso di laurea Comunicazione della Cultura e dello Spettacolo, gli studenti sono sottoposti ad uno studio critico dei linguaggi e dei linguaggi contemporanei, al confronto tra i contenuti del passato e le trasposizioni registiche. L’incontro con il regista è uno spazio privilegiato che permette di raccontare il dietro le quinte dello spettacolo. Non sempre è possibile incontrare il pubblico.
«Io sono sempre molto disponibile ad incontrare il pubblico – aggiunge il coreografo-. Sono spazi di confronto che consentono di guardarci negli occhi, in un dialogo costruttivo in cui emergono le curiosità e si raccontano le dinamiche dello spettacolo. I giovani, lo sappiamo, oggi più che mai sono bombardati dai media e dai social, difficile che vengano a vedere spettacoli; i luoghi di cultura possono farsi ancora da ponte tra il palco e la quotidianità, nei luoghi frequentati dai giovani, nei luoghi in cui la cultura può uscire dai libri e diventare concretezza».
Un momento dello spettacolo
«Allo stesso modo avvenga nei teatri: così come si organizzano, ad esempio, i preludi all’opera incontrando porzioni ridottissime di pubblico prima della prima, nella danza contemporanea, al contrario, il pubblico lo si incontra al termine dello spettacolo, dove di può, perché è lì, dopo aver visto lo spettacolo che nascono le domande a cui noi, addetti ai lavori, possiamo dare delle risposte», spiega il regista.
«Il mio desiderio è che i miei spettacoli vengano visti dalla gente che è interessata a questo genere, che scelga volontariamente di pagare un biglietto per vedere lo spettacolo. La danza, l’arte in generale, deve creare curiosità perché lo spettatore abbia il desiderio, la volontà di scomodarsi dalla sua poltrona, dalle sue abitudini, muoversi dalla sua pigrizia e scegliere di comprare il biglietto, uscire di casa, prendere la macchina, cercare parcheggio e poi sedersi e rimanere seduto al teatro e godersi ciò che l’artista propone».
«Gli piacerà? Non gli piacerà? Il nostro lavoro deve fare bene all’anima, deve cercare di far sognare le persone; il teatro non è un luogo per stare “comodi”, è un luogo che dà emozioni, suggestioni e invita a riflettere – continua -. La danza contemporanea ha due volti: quello ermetico, difficilmente comprensibile, e quello concreto che ci apre profondamente lo sguardo su aspetti che non immaginavi avresti visto. Il mio motto – così come diceva Baudelaire – è Glorificare l’immagine ancor prima del significato, pertanto per uno come me, che è un regista che fa il coreografo, vuol dire mettere fuori qualcosa che sta nel profondo con diverse sfaccettature e che non è semplice da costruire attraverso il movimento tale che possa essere compreso dal pubblico».
Il coreografo Roberto Zappalà, il direttore d'orchestra Vitali Alekseenook e i ballerini della Compagnia Zappalà
Come avviene, dunque, la trasformazione tra la drammaturgia e la coreografia?
«Tante volte mi hanno chiesto di insegnare coreografie, mi sono rifiutato perché la coreografia non si può insegnare – racconta Roberto Zappalà -. Io ritengo che il mio mondo nasce da un linguaggio, un linguaggio che è l'espressione più autentica di quello che poi accade in scena cioè non c'è un corpo attraverso il quale noi ci esprimiamo per arrivare a una drammaturgia iconica che in qualche modo ti fa capire subito che cosa vuoi dire (non c'è “Amore mio ci sposiamo” e io ti faccio vedere l'anello come succede nel balletto classico), ci si arriva attraverso delle suggestioni che dobbiamo riuscire a fare arrivare al pubblico attraverso un corpo che soffre, che gioisce ma non in maniera scontata. È una lettura che viene dal profondo: ogni ognuno degli artisti, ognuno dei danzatori – in questo caso abbiamo provato quasi 5 mesi – per far emergere non semplicemente la tecnica ma la bellezza di un corpo in movimento che comunica».
In questo spettacolo non è solo regista e coreografo ma anche scenografo, costumista, si occupa delle luci. Una figura poliedrica.
«Lo faccio sempre – spiega -. In questo in particolare affronto un copione scenico che vuole trasferire quelle che sono le contraddizioni della società contemporanea. La scenografia è molto mista, cerco di creare un’atmosfera che inizia dalla drammaturgia e finisce nella coreografia attraverso le scene, i costumi, le luci. Lo spettacolo, per me, deve avere un’unica coerenza; io cerco di costruire lo spettacolo dall’inizio fino a quando andiamo in scena e questo è determinante per il lavoro che faranno i professionisti che si affiancheranno a questo lavoro».
«Quando penso ai costumi, io so già cosa farò con i corpi, come si vedranno alcuni movimenti, quindi, si tratta di un pensiero di costruzione dello spettacolo molto più ampio – spiega -. Le collaborazioni degli ultimi anni sono di natura tecnica come con Veronica Cornacchini per i costumi; io penso alle luci ma mi avvalgo di un direttore tecnico che se ne occupa in maniera tecnica. È un lavoro lungo, più complesso, per il quale mi prendo anche cinque o sei mesi per fare un’opera, con tutte le problematiche economiche connesse. È il mio lavoro da quarant’anni, non lo faccio per altre ragioni se non per il piacere di farlo».