È strano non essere strani

Partendo dalla frase di John Lennon – “It’s weird not to be weird’’ – Giuseppe Grasso racconta la sua personale esperienza esplorando il mondo della disabilità e del diverso tra le lingue e culture straniere e il programma Erasmus 

Giuseppe Grasso

Quante volte, parlando di disabilità, abbiamo etichettato o sentito etichettare le persone con disabilità come limitate o addirittura anormali? Quante volte intendiamo il mondo come un posto dove si incontrano, e molto spesso si scontrano, la realtà nostra e quella dell’altro?

E quante volte, cari normali, ci rinchiudiamo nel nostro guscio, evitando così qualsiasi confronto con l’altro senza tuttavia fermarci a capire o anche solo conoscere, o per lo meno provare a conoscere, l’altro ed il concetto stesso di alterità?

In un mondo nel quale la globalizzazione e la multiculturalità, delle quali tanto si parla e poco si conosce veramente, sono aspetti imprescindibili del nostro vivere quotidiano, tali riflessioni dovrebbero e devono essere intese come fonte di curiosità ed opportunità di apprendimento ed arricchimento personale e collettivo piuttosto che essere viste come aspetti secondari e per persone strane e limitate.

Come sostenuto sin dall’antichità dal filosofo greco Aristotele, l’essere umano è un animale sociale e, pertanto, non è possibile, né tantomeno pensabile, evitare il confronto con l’altro.

D’altronde, sin da piccoli siamo istintivamente portati a cercare sostegno e conforto nell’altro piuttosto che in noi stessi, quindi evitare o addirittura rinnegare e rifiutare l’altro significa rifiutare ed evitare noi stessi, in quanto è proprio attraverso il confronto con l’altro e la ricerca di esso che si costruisce la propria identità.

Proprio da queste riflessioni desidero raccontare la mia personale esperienza di studente Erasmus con disabilità, nella speranza che sia stimolo di riflessione per tutti coloro che, indipendentemente da una loro eventuale disabilità, sono portati a pensare al diverso come un qualcosa di estraneo e da evitare.

Come in tutte le storie, credo sia opportuno iniziare dalle presentazioni. Difatti, prima di arrivare all’esperienza da me intrapresa, ritengo sia necessario rendere noto chi io sia e cosa mi ha portato ad avere una visione aperta del concetto di diversità ed a scegliere di intraprendere il mio attuale percorso di studi.

Chi sono e il mio percorso

Mi chiamo Giuseppe Grasso e sin dalla mia nascita, avvenuta prematuramente, ho dovuto fare i conti con il peso dell’essere etichettato come diverso.

Non starò qui ad elencare tutte le esperienze negative accadutemi, ma vorrei riportarne una a titolo puramente esemplificativo.

A conclusione del percorso scolastico di scuola secondaria di primo grado due insegnanti dissero a me e ai miei genitori ciò che un docente, di qualsiasi età, ordine e grado, non dovrebbe mai dire ad uno studente o ad una studentessa.

Di fronte al mio proposito di iscrivermi al liceo classico, i docenti dissero che io non ero adatto per frequentare il liceo classico e consigliavano altri percorsi, almeno a loro dire, più adatti a me perché “meno impegnative".

Nonostante le loro opinioni, sono andato lo stesso al liceo classico conseguendo la maturità.

Difatti fu proprio grazie ad una docente del liceo classico, con la quale mantengo ancora oggi ottimi rapporti, che ho finito per scegliere, una volta conseguita la maturità classica, di iscrivermi all’Università di Catania, al corso di laurea in lingue e letterature straniere ed intraprendere il mio attuale percorso universitario.

La docente alla quale mi riferisco è stata la mia professoressa di lingua e letteratura inglese durante tutto il mio percorso di studi liceali.

Se i miei genitori, o qualsiasi altra persona, mi avessero detto che avrei finito con l’iscrivermi in lingue, sarei scoppiato a ridere. Difatti, la prima cosa che ho detto alla professoressa il primo giorno del primo anno di liceo è stata: «È inutile che lei cerchi di insegnarmi e farmi piacere l’inglese perché non sono portato e non mi piacerà mai».

Nonostante la mia diffidenza e sfiducia iniziale, la professoressa non si è data per vinta ed è riuscita, alla fine, dove altri docenti avevano fallito.

La mia lingua

Tutto ciò ritengo sia stato dovuto a tre fattori che proverò a spiegare in maniera quanto più chiara possibile nonostante sia consapevole del fatto che bisogna trovarsi in una situazione simile alla mia, se non addirittura uguale, per poterli comprendere pienamente.

Il primo fattore che, secondo la mia personale opinione, ha fatto sì che io fossi disposto a mettermi in gioco nell’apprendere una lingua e cultura straniera, nel mio caso quella anglosassone, è stato il fatto di percepire la lingua e la cultura come un qualcosa di attuale e concreto.

Avendo iniziato, nel lontano 2013, ad appassionarmi alla band britannica The Beatles, finii col vedere la lingua e la cultura anglosassone non come un qualcosa da studiare ed apprendere unicamente per trovare un lavoro, ma piuttosto come la lingua e la cultura dei miei idoli.

Il secondo fattore è stato il sentirmi, finalmente, incoraggiato e valorizzato nonostante la mia evidente carenza di basi. Difatti, i docenti avuti nel corso dei tre anni non avevano compreso che ciò di cui io avevo realmente bisogno era solo un po' di incoraggiamento e fiducia, non di rigidità e critiche distruttive.

A differenza di altri docenti, la professoressa del liceo invitò me e tutti coloro che partivano scoraggiati e prevenuti verso la sua materia a lasciare alle spalle le esperienze passate e rassicurò me e tutto il resto della classe sul fatto che le difficoltà sorte sarebbero state superate insieme.

Il terzo, ed ultimo fattore, ma non per questo meno importante, è stato il vedere la lingua e cultura anglosassone come una sorta di rifugio.

Per tali ragioni, l’approcciarmi ad una lingua e cultura diversa dalla mia ed appartenente ad un’altra realtà è stato, e tutt’ora è, per me un elemento di conforto emotivo, un rifugio precluso al resto del mondo ed al quale solamente io avevo ed ho accesso. 

Tirando le somme, la mia fortuna, a parte l’avere un’insegnante che è stata in grado di valorizzare me e le mie capacità ed il vedere la lingua e cultura anglosassone come un qualcosa di attuale, è stata la mia tendenza naturale alla repressione, unita alla mia altrettanto naturale predisposizione nei confronti del diverso.

Essendo una persona schiva e riservata e non volendo vedere la bruttezza di non essere voluto, ho finito col reprimere tutto ciò che sentivo e con l’incanalare e sfogare la mia delusione nei confronti della realtà che mi circondava nell’apprendimento della lingua e cultura straniera. Niente mi avrebbe portato a tutto questo se fossi stato normale.

Questo è il motivo per il quale io considero la lingua inglese come la mia lingua. Difatti, per quante lingue io possa imparare, l’inglese è e sempre sarà l’unica lingua in grado di parlare al mio cuore ed esprimere pienamente i miei pensieri, sentimenti e stati d’animo.

Dopo aver conseguito la maturità classica, infatti, su consiglio della mia professoressa d’inglese del liceo, mi sono iscritto in lingue e letterature straniere all’Università di Catania con l’obiettivo preciso di specializzarmi in lingua e cultura inglese ed angloamericana ed insegnarla.

Se guardo indietro nel tempo, mi pare incredibile che quel timido ed introverso ragazzino di 19 anni quale ero io, seppur tra mille difficoltà ed i pregiudizi di cui è sempre stato vittima, sia ormai ad un passo dalla fine della magistrale.

Dopo aver concluso la triennale, ho deciso di proseguire gli studi iscrivendomi alla magistrale. Devo dire che, guardando indietro e paragonando il ragazzino della triennale a quello della magistrale, ho potuto notare un netto miglioramento.

La timidezza e l’introversione sono rimaste, ma il vero cambiamento, a mio parere, è avvenuto nella motivazione nell’affrontare la magistrale poiché ho cominciato a vedere lo studio più come un arricchimento ed una risorsa personale e si è verificato, di conseguenza, un cambiamento di metodo di prospettiva ed approccio allo studio stesso.

Giuseppe Grasso in un momento di relax in Grecia nell'ambito del programma Erasmus

Giuseppe Grasso in un momento di relax in Grecia nell'ambito del programma Erasmus

L’esperienza in Grecia grazie al programma Erasmus

Verso la metà del quarto anno del percorso universitario, ovvero il primo di magistrale, ho cominciato a valutare l’idea di effettuare la mobilità Erasmus e recarmi in un’università estera per sostenere parte degli esami rimasti.

In particolare, parlando di Erasmus, desidero soffermarmi sull’aspetto del rapporto docenti-studenti. Difatti, una delle prime cose che mi ha colpito il primo giorno di lezione è stata l’estrema disponibilità dei docenti nei confronti degli studenti, tanto verso i greci, quanto verso quelli Erasmus.

Riguardo gli ostacoli, non ritengo ve ne siano stati di particolari. Data la mia naturale predisposizione al confronto ed al dialogo con l’altro, non vi è stata alcuna difficoltà per me nell’adattarmi alla nuova realtà che mi si è parata davanti.

L’unica difficoltà degna di nota, almeno a mio parere, è stata la socializzazione con i ragazzi greci. Tale difficoltà è dovuta non ad una questione linguistica, ma piuttosto ad una questione caratteriale poiché ho constatato come i greci siano di natura molto schiva ed introversa.

Sempre relativamente alla difficoltà nel socializzare, vi è da considerare il fatto che io, non essendoci nessuno tra i miei colleghi che hanno svolto il programma Erasmus che avesse scelto di recarsi in Grecia, mi sono ritrovato completamente solo e senza nessun punto di appoggio e riferimento.

Nonostante ciò, tale fattore è stato anche un punto a favore. Se io fossi partito in compagnia, sarei sicuramente stato più incline a distrazioni ed avrei considerato quasi esclusivamente l’aspetto ricreativo dell’esperienza Erasmus, finendo con il trascurare lo studio.

Partire da solo, unito anche ad un orario delle lezioni molto più leggero rispetto a quello a cui ero abituato in Italia, mi ha permesso di dedicarmi con più serenità e concentrazione allo studio delle materie da preparare, portandomi a superare tutti gli esami che mi ero prefissato di sostenere in Erasmus.

In definitiva, ritengo che l’esperienza Erasmus da me intrapresa, così come qualsiasi esperienza all’estero, sia un’esperienza che valga la pena intraprendere.

Il cambiamento, le mie capacità, il “diverso”

Per quanto mi riguarda, se mi si chiede se questa esperienza abbia portato qualche cambiamento in me, la mia risposta è no. O, per meglio dire, non mi ha cambiato sotto il punto di vista della propensione e disposizione al dialogo ed al confronto con l’altro, giacché tale propensione e disposizione è naturalmente presente in me.

Il cambiamento che sento essere avvenuto in me si è verificato, piuttosto, in merito alla maggiore consapevolezza delle mie capacità.

Difatti, se riguardo indietro mi sembra impossibile ed impensabile che quel timido e introverso ragazzino con disabilità abbia percorso così tanta strada e sia riuscito a trascorrere un periodo di ben sei mesi all’estero da solo a contatto con persone mai viste prima e di lingua e cultura differente dalla propria.

Proprio sulla diversità mi pare doveroso e necessario spendere qualche ulteriore parola, in aggiunta a quanto scritto all’inizio del presente resoconto.

Alle domande iniziali, poste come spunto di riflessione ed alle quali se ne aggiungono altre tre, io rispondo che non esiste un concetto ed una definizione universale di diverso.

Che cos’è il diverso se non un criterio stabilito dagli esseri umani sulla base di preferenze personali, e quindi, in quanto personali, non omogenee e diverse le une dalle altre? Chi e/o cosa è diverso se non chi o ciò che noi decidiamo che sia tale in base a gusti, affinità e differenze puramente personali e soggettive?

In sostanza, vi è qualcuno, o qualcosa, che sia completamente normale?

A mio parere, il diverso, così come i concetti stessi di diversità e normalità, non è altro che un’invenzione umana per sottrarci al confronto con tutto ciò che non riteniamo interessante o simile al nostro modo di essere, prima ancora che di vivere. Un contenitore o un armadio, per usare una metafora, dove confinare e celare a noi stessi la nostra paura non tanto del confronto, quanto della diversità e dell’eventuale giudizio altrui che deriva dal confronto con l’altro e l’alterità.

Nel caso della disabilità la cosa diventa ancora più evidente, in quanto l’essere umano non riesce ad accettare il fatto di avere dei limiti e, pertanto, non appena si trova messo davanti ad essi, tende ad etichettare i disabili come diversi, limitati o anormali pur di non ammettere di essere per natura imperfetto e limitato egli stesso.

Se provassimo ad aprire ed allargare i nostri orizzonti, riformulando i concetti stessi di diverso e diversità, come fatto da me durante gli anni del liceo attraverso l’apprendimento di una lingua e cultura diversa dalla mia, saremmo sulla buona strada verso quella multiculturalità di cui tanto si parla e poco si conosce davvero.

Se ci ricordassimo del nostro essere umani, quindi imperfetti e soggetti per natura ai limiti, non vi sarebbe più bisogno di parlare di integrazione sociale, la quale è tanto dibattuta quanto poco praticata.

Per ritornare alle origini, riprendendo la domanda del titolo e provando a rispondervi in maniera definitiva, John Lennon, membro e leader della band britannica The Beatles, ha scritto: It’s weird not to be weird, ovvero È strano non essere strani.

Grazie a…

A conclusione di questo mio racconto non posso sottrarmi dal ringraziare tutta una serie di persone che hanno contribuito alla riuscita dell’esperienza Erasmus da me intrapresa.

Tra le varie persone che mi hanno supportato, oltre alla mia famiglia, ritengo doveroso menzionare lo staff del Cinap, il Centro per l'integrazione Attiva e Partecipata che si occupa dell’integrazione universitaria degli studenti con disabilità, e l’Unità operativa Relazioni internazionali di Unict, in particolar modo le dottoresse Valentina Barbagallo e Matilde Vecchio ed i miei due coordinatori accademici, i docenti Raffaele Zago e Anna Themou.

Ringrazio ognuna delle persone sopra citate per avermi aiutato a barcamenarmi tra le infinite procedure burocratiche pre e post-mobilità.

Un ulteriore ringraziamento va ai docenti da me avuti in Grecia durante il semestre lì trascorso per aver saputo valorizzare le mie potenzialità e, innanzitutto e soprattutto, essere stati in grado di vedere e valorizzare la persona prima ancora che lo studente.

Un ultimo, ma non meno importante, ringraziamento va a cinque ulteriori persone.

La prima persona che desidero ringraziare è la mia docente d’inglese del liceo, ovvero la professoressa Alessandra Scalzo. Senza il suo costante supporto, non avrei mai potuto far emergere pienamente quell’apertura mentale, già naturalmente presente in me e fondamentale per affrontare un’esperienza come l’Erasmus, nei confronti del “diverso”.

La seconda che vorrei ringraziare è la mia ex tutor universitaria Martina Iatrino, per avermi esortato a fare questa esperienza ed avermi reso più cosciente e consapevole delle mie potenzialità.

Per terza e quarta, desidero ringraziare due tra le poche, ma migliori, persone conosciute durante la mia carriera universitaria a Catania, ovvero le mie colleghe, nonché amiche, Giorgia e Martina Monaco.

Grazie a loro, difatti, ho potuto scoprire la bellezza di un’amicizia disinteressata, nata dall’affetto e dalla stima reciproci e non dal puro e semplice interesse personale.

Nonostante la mia iniziale diffidenza verso tutto e tutti, loro, al contrario della stragrande maggioranza delle persone, non hanno avuto paura di approcciarsi a quel timido e introverso ragazzo con disabilità quale sono io, cosa di cui sarò per sempre memore e grato.

Dulcis in fundo, la quinta ed ultima persona che desidero ringraziare è un membro effettivo della mia famiglia, ovvero mia cugina Giorgia che mi è stata accanto durante tutti gli esami da me sostenuti nel corso del programma Erasmus, chiedendo di me e del mio percorso, offrendomi il suo supporto e gioendo di ogni mio successo.

Proprio a causa di questa sua natura gentile e della sua maturità, alquanto inusuale ed impressionante per la sua età, la considero non solo la mia cuginetta-sorellina, ma innanzitutto e soprattutto, come amo definirla io, la mia piccola grande donna.