Dal teatro ai teatri. La moltiplicazione delle pratiche

La masterclass di Eugenio Barba e Julia Varley dell’Odin Teatret al Centro Universitario Teatrale

Sofia Bordieri

Dal teatro ai teatri. La moltiplicazione delle pratiche non poteva che essere il titolo scelto per la masterclass di Eugenio Barba e Julia Varley che si è tenuta nei giorni scorsi al Centro Universitario Teatrale dell’Università di Catania.

Iniziatore del Terzo Teatro, Barba (nato a Brindisi nel 1936) appena sedicenne ha raggiunto la Norvegia in autostop per poi spostarsi in Polonia, desideroso di studiare teatro. Dopo la collaborazione con il regista polacco Grotowski, ha fatto ritorno nella penisola scandinava dove fonda il suo organico, l’Odin Teatret, composto da un gruppo di candidati non ammessi alle accademie di recitazione.

Nel 1976 si è unita al gruppo Julia Varley (Londra, 1954), sensibile artista impegnata nell’emancipazione femminile, coltivando da allora una serie di progetti importanti insieme a Barba: dalla Scuola Internazionale di Antropologia Teatrale, all’Università del Teatro Eurasiano, fino alla “Fondazione Barba Varley”.

A far ritornare nella nostra città, dopo quasi trent’anni, il fondatore dell’Odin Teatret è stato il Comitato Nazionale Nino Martoglio, che ha organizzato l’evento per chiudere il triennio di iniziative realizzate in occasione del Centenario della morte del regista, sceneggiatore e poeta siciliano.

L’incontro, introdotto dal regista Elio Gimbo e da Gabriele Sofia, docente di Discipline dello spettacolo all’Università Roma Tre, si è articolato in tre momenti diversi.

Il primo è stato dedicato alla visione del docu-film L’arte dell’impossibile di Elsa Kvamme, che ripercorre la vita di Barba e la storia del suo gruppo teatrale: dall’arrivo in Norvegia alla fondazione dell’Odin, dallo spostamento nella città di Hostelbro in Danimarca all’attività odierna.

Ad essere narrate non sono solo le tappe ma anche ciò sta ‘dentro’ e ‘dietro’ la storia del gruppo, dunque i viaggi, gli spettacoli, i ‘terremoti’.

Questi ultimi sono dei cambiamenti drastici e improvvisi che Barba procurava al gruppo e a sé stesso. Partendo dall’assunto che il teatro sia un mestiere basato sull’essere redditizio – ossia sul produrre spettacoli-merce vendibili – e (forse di conseguenza) sulla difficoltà di mantenere relazioni lavorative durature, i ‘terremoti’ avevano lo scopo di scuotere gli artisti del gruppo affinché chi decidesse di rimanervi lo avrebbe fatto rinnovando l’adesione alla causa artistica, sociale ed etica del progetto Odin.

Com’è noto, il senso profondo dell’essere teatrante per Barba era quello di rifiutare un teatro inteso come impiego capitalistico e commerciale a favore di un’attività artistica dalla marcata vocazione sociale. Davanti ai nostri occhi di spettatori si è dispiegata così una storia ‘epica’, ma Eugenio e Julia erano lì a guardare con noi, semplici e sorridenti come quando erano ragazzi.

Un momento della masterclass con Eugenio Barba

Un momento della masterclass con Eugenio Barba

L’intervento di Julia Varley, a seguire, è stato un missaggio di dimostrazione e spettacolo. Con l’intento di mostrare il lavoro sull’interpretazione del testo, la performance dell’attrice si è suddivisa in due momenti: nel primo ha pronunciato parole e frasi (come «il testo è un tappeto che deve volare lontano») sotto forma di esercizio, mettendo in pratica alcuni dei principi usati durante la seconda parte incentrata, invece, sulla recitazione di alcuni frammenti di testi teatrali dell’Odin Teatret (dal 1976 al 2004).

In scena erano presenti solo un leggio e Varley a piedi nudi, con indosso un vestito di cotone bianco e ricami colorati. Negli esercizi performativi le parole erano sempre le stesse ma caratterizzate ogni volta da nuove variazioni interpretative: punteggiatura, agenti atmosferici (ovvero dare l’impressione della nebbia che avvolge, della pioggia che cade), diverse persone (maestro, commentatore sportivo, seduttore), illustrazione (segreto, eccitato, calmo-caldo, calmo-freddo), azioni (spingere, tirare, spostare un peso, lanciare, accarezzare, indicare, correre, ascoltare musica). 

Durante la seconda parte l’attrice ha recitato alcuni estratti della ricca teatrografia dell’Odin, tra cui brani da Ceneri di Brecht (1980), Il vangelo secondo Oxyrhyncus (1991) – con vari passaggi del ruolo di Giovanna D’Arco da lei interpretato –, Talabot (1990), Theatrum Mundi (1998), Kaosmos (1994), Le farfalle di Doña Musica (1996), Nello scheletro della balena (1997), Mythos (1998), Il sogno di Andersen (2004).

Varley, pienamente consapevole del suo essere in un determinato ‘qui ed ora’, ha mostrato le tante e sfaccettate possibilità vocali con cui interpretare un testo. Come un’archeologa, ha ‘estratto’ da dentro di sé ritmi e tonalità diversi, mettendoli in voce con grande corporeità. Alla fine, l’attrice ha spinto il leggio sul pavimento provocando un boato creato anche da un oggetto di vetro che si è frantumato in mille pezzi. Tranquillamente, è poi uscita di scena camminando a piedi nudi sui vetri, senza tornare dinnanzi al pubblico per godersi gli applausi, come a dire: la mia voce cambia forma con la stessa facilità con cui un bicchiere cadendo si frantuma. E questo è sorprendente.

Un momento della masterclass con Julia Varley

Un momento della masterclass con Julia Varley

In seguito Eugenio Barba, con il suo sorriso smagliante e gli immancabili sandali ai piedi, ha esordito con un ironico: «Beh, parliamo di teatro»; proseguendo poi seriamente: «Per me il teatro è come il senso di cittadinanza per un cittadino e quello di forestanza per un indigeno».

Ripercorrendo l’abbrivio dell’Odin Teatret, il maestro ha raccontato al pubblico del profondo senso di stupidità che provò quando, appena trasferitosi in Norvegia, non conosceva la lingua, strumento principe del comunicare.

Nelle sue parole – pronunciate con voce calma, bassa e talvolta improvvisamente acuta e concitata – è emerso tutto il suo interesse verso la conoscenza del corpo che nasce da ogni esperienza, dall’infanzia alla cultura con cui si entra in contatto in un luogo. La domanda ricorrente che il maestro ha posto a sé stesso è stata: perché scegliere questo mestiere?

Il teatro è stato, e ancora è, veicolo di formazione, ma nel Sessantotto è diventato propagatore di relazioni. Artaud, Stanislavskij e Grotowski sono punti di riferimento in tal senso.

Allora il discorso dal teatro si è spostato, senza soluzione di continuità, verso un ambito culturale e sociale più ampio.

Alla domanda, di nuovo posta a sé stesso, perché scegliere il teatro che fa guadagnare poco? La risposta di Barba è stata: «C’è un altro modo di vivere rispetto a quello offerto da grandi e piccole città». Senza escludere il mestiere, cioè il lavorare per il teatro, esiste un modo di stare al mondo non incentrato sul profitto materiale ma su quello relazionale, comunitario, conoscitivo.

La ricerca del senso di cittadinanza o di ‘forestanza’, assenti nella società, è quindi collegata al teatro che è stato sempre un rifugio per chi cercava un luogo altro.

Secondo il maestro, tuttavia, «oggi il teatro è un animale in via d’estinzione». Con un’espressione rabbuiata, Barba ha affermato che si è persa la capacità di destare l’interiorità dello spettatore, di entrare in quella parte del pubblico non immediatamente accessibile.

«In Europa non c’è più il senso della lotta. Non c’è resistenza, e non contro il governo (questo è normale), la resistenza contro il tempo che logora ognuno di noi. Questa è la realtà europea, a differenza di ciò che accade in altri luoghi come l’America Latina dove è sorprendente la partecipazione del gruppo, dove c’è ancora la dimensione del teatro come rifugio e piacere fisico dell’apprendere. In Europa bisogna ancora lottare per questo, ed è necessaria la dimensione dello stare in un piccolo gruppo con cui condividere un imperativo categorico, ovvero una visione comune. Bisogna radicarsi nella terra e nel cielo, stimolare la capacità di stringere rapporti creativi».

Eugenio Barba e Julia Varley

Eugenio Barba e Julia Varley

L’ultima parte dell’incontro, ormai assorbito in un’atmosfera assembleare, è stata dedicata a uno scambio tra Barba, Varley e il pubblico presente. Giovani e anziani teatranti, studentesse e studenti, appassionati e curiosi hanno posto agli artisti diverse domande, di cui ne riportiamo alcune.

Da uomo italiano c’è una tradizione drammaturgica che riconosce sia stata importante nel suo percorso?

«Un autore importante per me è stato Verga, ma non ho mai pensato di mettere in scena un suo testo. L’Odin attualmente ha attori da dieci paesi diversi e, oggi come nel passato, non abbiamo una lingua ‘comune’ e, dunque, una tradizione drammaturgica di riferimento», ha risposto Eugenio Barba.

Troppe volte si immagina il Terzo Teatro come una ricerca iniziata intorno al ’68 fuori dai luoghi teatrali. Quel tipo di esperienza non crea oggi un limite nella ricerca?

«Noi scegliamo i riferimenti da seguire nel nostro cammino. Il problema è che spesso si inventa il passato o ci si convince della propria novità. Noi siamo partiti da problemi e non da idee. Con il trasferimento in Danimarca abbiamo perso la lingua e quello era un problema. Non c’è stata alla base un’idea decisa a priori. Il bisogno di scoprire viene da qualcosa che devi affrontare, da problemi. Devi trovare tu il modo di rendere possibile il tuo desiderio. E poi è una fortuna il fatto che non possiamo controllare tutto», ha detto Julia Varley.

Le differenze tra i generi teatrali hanno creato confusione negli spettatori e nei teatranti?

«I vari generi sanciscono le diversità - ha aggiunto Eugenio Barba -. Questo è tipico della nostra cultura, in Asia invece si direbbe che si parla dello YING e dello YANG. Bisogna parlare al plurale, questo è di estrema importanza. Non parliamo del futuro del teatro, infatti, ma dei futuri. Penso che nella società di oggi si è persa la capacità di riconoscere l’attore. Tutto è spettacolo, dalla politica alla moda. La spettacolarità non è più dominio del teatro». 

«Quando decisi di fare il teatro lo feci per mascherare la mia identità etnica - ha raccontato l'attore -. Se divento artista, pensavo, entro in un’altra categoria sociale. Così sono andato in Polonia scegliendola per la mia adesione ideologica al comunismo che, tuttavia, lì significava censura, polizia, difficoltà burocratiche. Ho perso la mia fede di cambiare la società. E cosa rimaneva? Razzismo, ingiustizie. Allora ho deciso di lottare in un altro modo. Il teatro per me è diventato il modo di cambiare le persone. L’unica cosa che conta è l’effetto che può avere anche su una singola persona, e che non ci sia discrepanza tra quello che dico e quello che faccio».

Un momento della masterclass con Eugenio Barba

Un momento della masterclass con Eugenio Barba

Secondo lei oggi è possibile portare avanti un pensiero autoriale personale?

«Conosco molti gruppi guidati da un autore. La scrittura è uno strumento libero. Spesso non è il testo il problema ma come viene presentato. Non penso che il tema sia così importante per l’autore quanto come lo tratti. Pensi a Anna Karenina di Tolstoj, è una storia semplicissima quasi banale, ma com’è scritta? Avere qualcuno di cui ti fidi è importante. Un vero amico non ti risparmia la verità. Io ho avuto la fortuna di avere avuto due amici intellettuali che mi hanno sempre detto la verità», ha detto Eugenio Barba.

Durante l’anno di allontanamento dal teatro (il terzo terremoto) cosa avete fatto?

«Il terremoto doveva funzionare anche per me, che allora dovevo far fronte alla responsabilità di sostenere i miei figli. Avevo anche dei desideri però, come quello di imparare il giapponese. Così riuscì a prendere un biglietto per la transiberiana e arrivai in Giappone per imparare la lingua. Sono stato ospite di una famiglia e vivevo con uno yen al giorno. Considerate che la metro costava 0,80 centesimi e per raggiungere certi posti dovevo camminare per ore. Per incontrare un amico alle dieci dovevo partire anche alle quattro del mattino. Una cosa folle insomma. Sarebbe stato meglio mangiare a sazietà a casa», ha aggiunto l'attore teatrale.

Per Julia Varley «quello che mi meraviglia delle vostre domande è una pomposità che costruite attorno alle nostre vite. In realtà era tutto più semplice e quasi banale di così». 

«Durante quel ‘terremoto’ ci siamo concentrati sul mantenimento di una struttura organizzativa. Abbiamo lavorato su altri progetti teatrali in gruppo o singolarmente. Avevamo anche una tournée in Spagna, Eugenio non venne e questo per molti significò una pugnalata, un tradimento. Era anche il periodo in cui alcuni di noi avevano avuto figli. Quando Eugenio tornò dovette risolvere dei problemi con il gruppo. Due cose lo disturbarono in particolare: il fatto che i bambini entrassero in scena dopo lo spettacolo, creando una situazione da famiglia-circo e l’autorialità dell’Odin; cioè, se qualcuno di noi avesse fatto un altro progetto esterno non avrebbe potuto essere definito dell’Odin Teatret. Fu un tempo difficile di divorzi, nuovi matrimoni, ritorni e partenze», ha detto in chiusura Julia Varley.

L’intensissimo pomeriggio di scambio è parso non voler giungere al termine. Il Cut si è trasformato in un grembo accogliente e riflessivo. «Non sono io che cambio il mondo. È il mondo che cambia me ogni secondo» è una delle frasi del docu-film visto in apertura che ci ha colpito di più e che pensiamo possa descrivere bene questo geniale e misterioso personaggio che è Eugenio Barba, insieme alla sua compagna di lavoro Julia Varley. 

Ci auguriamo che il loro operato rivoluzionario possa risuonare sempre nel mondo del teatro. Di certo questa masterclass-incontro è stata per tutti un’esperienza preziosa, che difficilmente si potrà dimenticare.