Al Dipartimento di Scienze politiche e sociali un intenso incontro sulla violenza contro le donne con esperti e rappresentanti delle associazioni
Chi resta e cosa rimane del 25 novembre?
È una domanda che un intero Paese, ancora scosso dai recenti casi di femminicidio, si pone. Dagli psicologi e sociologi ai rappresentanti delle istituzioni e del mondo politico e delle associazioni, dai formatori e educatori ai cittadini, in particolar modo i giovani.
Perché ancora oggi la violenza cieca dell’uomo si abbatte sulla donna? Perché nel 2023 si sono registrati 106 casi di femminicidio, in netto aumento rispetto all’anno precedente?
Domande che in questi giorni tutti si sono posti anche alla luce dell’ultimo caso, quello di Giulia Cecchettin, che ha scosso le coscienze di un intero Paese anche perché si sono rispolverati termini come patriarcato e maschilismo. Oltre a tutte le problematiche relative all’educazione delle giovani generazioni.
Domande alle quali ancora oggi non sempre si riesce a dare risposte nonostante le innumerevoli analisi degli esperti e l’immensa mole di articoli su carta stampata e online, di servizi nei tg e focus nelle innumerevoli trasmissioni televisive con i giornalisti spesso concentrati sui più piccoli dettagli del “fatto” per assecondare la sete di informazione, delle copie di giornali vendute e dei dati dell’audience.
Purtroppo, tutti, come avviene spesso in questi casi, dopo pochi giorni, si preferisce mettere tutto sotto il tappeto e far finta che non sia successo nulla per poi rispolverare la questione quando scoppia un altro caso.
La questione della violenza contro le donne non va affrontata solo nella settimana che ruota attorno al 25 novembre (tra decine di convegni sparsi in ogni città, panchine tinteggiate di rosso e cortei di giovani), anche con un pizzico di ipocrisia, o quando avviene un nuovo “fatto” tristemente da raccontare e spinti dall’onda dell’emozione.
Forse, anzi, sicuramente, bisognerebbe parlarne e sensibilizzare di più, soprattutto i giovani, sempre e in tutti luoghi - dalle aule di ogni ordine e grado degli atenei fino a quelle della politica – ogni settimana dell’anno. Dovrebbe restare questo del 25 novembre!
Un momento dei lavori del convegno nell'aula magna del Palazzo Pedagaggi
25 novembre. Violenza contro le donne: Chi resta?
È il titolo del convegno che sabato scorso si è tenuto nell’aula magna del Palazzo Pedagaggi, la sede del Dipartimento di Scienze politiche e sociali. Uno dei luoghi dell’ateneo catanese in cui docenti e studenti si confrontano, nei rispettivi ruoli, sulle problematiche, spesso piaghe, della società.
E proprio la studentessa Michela Pisano (coordinatrice dell’associazione Koinè al dipartimento di Scienze politiche e sociali), nel ruolo di moderatrice, ha aperto i lavori ponendo un quesito: «Perché siamo qui? In quest’aula siamo in tanti, mentre in quella del Senato, che ha sì approvato definitivamente una nuova legge per contrastare la violenza sulle donne, erano in pochi. Credo che il problema sia strutturale e richieda un cambiamento culturale, a partire dalla istituzioni e dai noi giovani», ha detto la studentessa.
«Il Dipartimento di Scienze politiche e sociali è da tempo impegnato su questi temi e la giornata di oggi pone interrogativi sui vari aspetti del problema: dal fatto che oggi la stessa Unione europea non ha stabilito una definizione comune tra i 27 Paesi aderenti di “femminicidio” alla mancanza di dati ufficiali da parte degli organi deputati fino alla questione culturale», ha spiegato la prof.ssa Pinella Di Gregorio, direttrice del Dsps.
Un momento dell'intervento della giovane Michela Pisano
«Siamo consapevoli che in Italia i casi sono il doppio di quelli della Francia o di altri paesi, degli sforzi delle forze dell’ordine e delle istituzioni, ma sottovalutiamo spesso che il problema è insito il più delle volte nella famiglia – ha aggiunto la direttrice del Dsps -. E Elena, la sorella di Giulia Cecchettin, ha posto un altro aspetto del problema: quello della “società patriarcale”. Non è rimasta in silenzio nel suo dolore, ha deciso di rompere con le sue parole questo silenzio, aprendosi al mondo. Ma è stata subito attaccata dal mondo politico anche per il suo abbigliamento. Forse ha detto qualcosa di scomodo? Credo che abbia toccato un punto dolente della nostra società, ma non l’unico».
«Si parla spesso che il femminicidio sia legato all’amore tossico, così come evidenziato spesso dai testi delle canzoni dei rap di oggi, ma io credo che sia più corretto parlare di relazione asimmetrica tra uomo e donna, una tensione sentimentale che mette sullo stesso piano azione e reazione così come emerge anche nell’ambito dell’informazione e della comunicazione – ha aggiunto -. Nel caso di Giulia, più che di amore tossico, parlerei di un controllo esercitato da Filippo Turetta mosso dall’invidia per il successo della fidanzata negli studi e per aver trovato una sua autonomia e indipendenza nella sua vita».
«Gli uomini non sono riusciti a riformare se stessi, non riescono ad accettare la parità di genere, vogliono ancora oggi controllare la donna tra poteri e ruoli sociali e economici della società – ha precisato la prof.ssa Di Gregorio -. Occorre avviare un processo di autocoscienza negli uomini ponendo una profonda riflessione culturale che deve portare alla maturazione del proprio genere. È un problema, anche, di educazione, ma per la politica non occorre modificare la didattica nelle scuole».
«Più che di patriarcato, di cui ha parlato Elena Cecchettin, credo che sia più corretto parlare di una reazione sbagliata alla modernità da parte degli uomini al fatto che le donne, dalla Seconda guerra mondiale a oggi, si siano emancipate “rompendo” il potere maschile in tutti gli ambiti della società con una “guerra” culturale e politica», ha detto in chiusura di intervento.
Un momento dell'intervento della prof.ssa Pinella Di Gregorio, direttrice del Dsps
Parole riprese anche da Stefania Mazzone, delegata all’Inclusione, pari opportunità e politiche di genere al Dsps.
«Occorre più sensibilizzazione, dalle nostre aule universitarie a quelle delle scuole, per raggiungere la parità di genere sul piano culturale perché è chiaro che le donne che si liberano dal patriarcato generano reazioni violente da un sistema in crisi, ma la capacità di esprimere il disagio da parte maschile rientra nelle competenze sociali da acquisire in una comunità educante. Tanto per essere chiari: Filippo Turetta lo riconosciamo tutti come il bravo ragazzo in mezzo a noi come figlio, compagno e fidanzato che non è però riuscito a mettersi in discussione davanti al “potere” conquistato da Giulia. In una società patriarcale di 50 anni fa, Giulia avrebbe sposato Filippo e non sarebbe morta, ma avrebbe vissuto morendo», ha detto Stefania Mazzone.
«Il femminicidio pone la questione della rivoluzione femminile e della sconfitta del patriarcato che arma la mano dell’uomo. Gli uomini hanno la responsabilità dei casi di femminicidio, cosa ben diversa dal senso di colpa. Sfugge ancora oggi la banalità del male, come teorizzava Hannah Arendt, non si ha consapevolezza. Basti pensare al fatto che Elena, come una Antigone dei nostri tempi, che sotterra il fratello gridando al potere, viene additata come una “strega” da alcuni politici per quello che ha detto e per il suo stile. Ma la stessa Elena ha detto che Filippo non è un mostro, ma figlio di una società improntata sulla cultura patriarcale da cui tutti gli uomini traggono un beneficio», ha aggiunto la docente.
Un momento dell'intervento della prof.ssa Stefania Mazzone
«Per questo ancora oggi dobbiamo parlare di femminicidio di Stato, la politica ancora oggi non favorisce la parità di genere, la cultura del rispetto, tanto che ci si oppone all’educazione sessuale a scuola. Il maschio non riesce a reagire alla propria emotività esplodendo in rabbia e violenza. Per questo è necessaria la pratica della relazione, di tradizione femminista, al fine della gestione del conflitto tra uomo e donna che deve essere trasformato in un continuo e costante confronto», ha aggiunto Stefania Mazzone
E in chiusura di intervento la delegata all’Inclusione, pari opportunità e politiche di genere al Dsps ha denunciato la faziosità di un certo femminismo che sfila contro le vittime della violenza, ma tace gravemente sugli stupri delle donne, come quanto avvenuto il 7 ottobre scorso, in Israele: «le giovani, le bambine, le anziane, orridamente violate da Hamas, non sono solo una, ma molte, molte di meno».
Un momento dell'intervento della prof.ssa Stefania Mazzone
Sulla cultura dell’individualismo si è soffermata la prof.ssa Deborah De Felice, sociologa del diritto e della devianza al Dipartimento di Scienze politiche e sociali.
«Purtroppo siamo pervasi dall’individualismo, e non dalla condivisione, in questo processo di crescita e maturazione di ogni essere umani. Non solo gli uomini, ma anche le donne, sono ancora intrisi da questa cultura del patriarcato e giornate come queste dovrebbero spingere tutti noi a fare delle riflessioni sul femminicidio», ha detto la prof.ssa De Felice che, nel corso del suo intervento, ha snocciolato diversi dati sui casi di omicidio in Italia nel 2023 «pari a 295, di cui 106 sono donne».
«Su 106 femminicidi, 87 si sono verificati in ambito familiari e in 54 casi è stato il partner. Dati in crescente aumento rispetto al 2022 e quel che è decisamente preoccupante è che in Italia il 39,3% degli uomini è convinto che una donna sia in grado di sottrarsi a una violenza sessuale e il 19,7% pensa che siano le donne a provocare la violenza sessuale con il loro modo di vestire o di fare. Il 16% degli uomini controlla la vita della propria partner», ha aggiunto.
«Siamo di fronte ad una cultura del negazionismo, ne parliamo poco e male, anche nell’approccio e solo in occasione del 25 novembre, senza contestualizzare il tutto nella società di oggi. Si definisce l’uomo autore del femminicidio come un mostro o malato in una narrazione che viene vista dall’esterno solo come una questione di quella coppia e mai come un problema della nostra società», ha tenuto a precisare la prof.ssa De Felice.
Un momento dell'intervento della prof.ssa Deborah De Felice
«In questo contesto emerge il senso di colpa della donna che non riesce a raccontare o a denunciare le violenze. Anche i casi di stupro ormai non fanno notizia perché “alla fine” la donna è viva o addirittura si arriva a difendere lo stupratore che è stato “provocato”. Nel 14,6% dei casi è la donna che pensa che gli stupratori siano stati provocati. È chiaro che in queste narrazioni non si arrivi mai alle radici del problema, si definiscono i casi di violenza come “inspiegabili”, la donna viene ancora vista come un oggetto, non si punta dritti all’educazione, manca un percorso formativo che tutti noi dovremmo seguire e parlare insieme», ha spiegato la docente.
«Il dato strutturale richiede interventi normativi e culturali, siamo ancora alle prese con il patriarcato e con una società in cui il potere, e i ruoli di potere, rimane nelle mani dell’uomo. Siamo una società in cui non esiste una rete di solidarietà tra le donne, anzi in alcuni casi sono proprio le donne che classificano le vittime come “devianti”. Appare chiaro che le politiche pubbliche siano ancora insufficienti e occorre una formazione con le parole giuste», ha concluso la prof.ssa Deborah De Felice.
La campagna di Amnesty International
La "voce" delle associazioni
Chiara Paolucci di Amnesty International ha illustrato la campagna #iolochiedo, lanciata nel 2020, incentrata principalmente sulle denunce di abusi sessuali e violenza fisiche e sulla promozione di quel passaggio da una cultura dello stupro a una cultura del consenso della donna al rapporto sessuale.
«Non basta più il minuto di silenzio o il corteo o protesta in piazza, occorre far sentire la nostra voce e soprattutto sensibilizzare i giovani sul fatto che il sesso senza consenso è stupro così come sancito dalla Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica. Dobbiamo coinvolgere le future generazioni sin da subito, nelle scuole di ogni ordine e grado, ma purtroppo troviamo porte aperte solo negli istituti superiori di secondo grado».
Un momento dell'intervento di Chiara Paolucci
A seguire Grazia Cutuli dell’associazione “La Rete D’oro”, nel suo intervento supportato da un toccante video di testimonianze di donne che hanno denunciato violenze e abusi, ha sottolineato l’importanza della «condivisione delle problematiche per diventare donne libere».
«Oltre alle forze dell’ordine potete denunciare anche tramite i servizi sociali o le associazioni ed è soprattutto fondamentale denunciare sin dalle prime avvisaglie. Si deve denunciare tutte le forme di violenza perché occorre rispettare se stessi e non ritenersi responsabile. Purtroppo ci sono donne che si ritengono colpevoli delle violenze subite che, invece, nella maggior parte dei casi, hanno radici profonde, tramandate in ambito familiare», ha aggiunto.
Vera Squatrito e Grazia Cutuli
Carlotta Vitale, rappresentante dell’associazione studentesca Koinè, ha letto la commovente poesia dell’artista e attivista peruviana Cristina Torre Cáceres scritta nel 2011. Versi scritti dopo la morte di Mara Castilla e che sono poi diventati il simbolo della lotta contro la violenza di genere, soprattutto nelle manifestazioni del movimento Ni una menos, nato in Argentina il 3 giugno 2015..
“Se domani non rispondo alle tue chiamate, mamma. Se non ti dico che non torno per cena. Se domani, il taxi non appare. Forse sono avvolta nelle lenzuola di un hotel, su una strada o in un sacco nero. Forse sono in una valigia o mi sono persa sulla spiaggia. Non aver paura, mamma, se vedi che sono stata pugnalata. Non gridare quando vedi che mi hanno trascinata per i capelli. Cara mamma, non piangere se scopri che mi hanno impalata. Ti diranno che sono stata io, che non ho urlato abbastanza, che era il modo in cui ero vestita, l'alcool nel sangue. Ti diranno che era giusto, che ero da sola […] Lotta per le vostre ali, quelle ali che mi hanno tagliato. Lotta per loro, perché possano essere libere di volare più in alto di me. Combatti perché possano urlare più forte di me. Perché possano vivere senza paura, mamma, proprio come ho vissuto io. Mamma, non piangere le mie ceneri. Se domani sono io, se domani non torno, mamma, distruggi tutto. Se domani tocca a me, voglio essere l'ultima”, conclude la poesia tra gli applausi delle studentesse e degli studenti.
Carlotta Vitale mentre legge la poesia di Cristina Torre Cáceres
Il finale è stato di straordinaria emozione, grazie alla testimonianza di Vera Squatrito, la mamma della giovane Giordana Di Stefano, che nel 2015 a soli 20 anni è stata barbaramente uccisa dal compagno strappandola per sempre alla sua piccola bimba di soli 4 anni, Asia.
«È per lei che io ancora oggi ho la forza di combattere, di far conoscere la storia di mia figlia, per costruire un mondo migliore in cui lei possa crescere», ha detto la mamma di Giordana. Passando dal dramma dello stalking e della violenza psicologica fino ad arrivare al dolore di un processo vissuto dalla Squatrito come «un secondo omicidio di mia figlia», il senso dell’intervento è stato concentrato nella costruzione e nella solidarietà.
La Casa di Giordy è il progetto di Vera Squatrito, perché le donne abbiano i luoghi, l’assistenza, l’attenzione, la speranza che Giordana continuerà a dare loro. Il video di Giordana, felice e libera danzando ha dato a tutti i presenti il senso forte della frase conclusiva: «Voglio ricordare così mia figlia, libera come l’ho cresciuta io», ha aggiunto, e le relatrici si sono congedate impegnandosi a rendere il 25 novembre tutto l’anno.
Un momento dell'intervento di Vera Squatrito
Nella foto di copertina il murale della Street Artist Laika comparso a Roma dal titolo: “Ogni tre giorni – If you were in my shoes“ (foto Ansa)