Intervista a Vera Gheno, sociolinguista dell’Università di Firenze, autrice del podcast di successo “Amare parole”. «Impariamo anche a cogliere la gamma infinita di sfumature del silenzio», ha detto in occasione dell'incontro organizzato da Taobuk al Centro Universitario Teatrale
Fiorentina di madre ungherese, Vera Gheno, classe 1975, è ricercatrice di Sociolinguistica nell’università toscana, e si occupa prevalentemente di comunicazione mediata tecnicamente, questioni di genere, diversità, equità e inclusione.
Ha pubblicato numerosi saggi tra cui Guida pratica all’italiano scritto (senza diventare grammarnazi) nel 2016 (Cesati), Tienilo acceso. Posta, commenta, condividi senza spegnere il cervello nel 2018 (con Bruno Mastroianni, Longanesi), Potere alle parole nel 2019 (Einaudi), Femminili singolari nel 2019 (Effequ), La tesi di laurea nel 2019 (Zanichelli), Le ragioni del dubbio nel 2021 (Einaudi), Chiamami così nel 2022 (Il Margine) e l’ebook Parole contro la paura.
La sua ultima fatica s’intitola Grammamanti e fa perno sull’affermazione che le parole sono centrali nelle nostre vite: «Per questo – sostiene - dovremmo instaurare con loro una vera e propria relazione amorosa, sana, libera, matura. Perché le parole ci permettono di vivere meglio e ci danno la possibilità di cambiare il mondo».
Va fiera, e non ne fa mistero alcuno, dell’«influenza osmotica» subita da Tullio De Mauro, ispiratore del manifesto Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica pubblicato proprio nel 1975 (l’anno della sua nascita), un maestro che ha spesso incrociato negli anni della lunga collaborazione con l’Accademia della Crusca.
Tra i suoi riferimenti più saldi c’è anche Giorgio Cardona, «grandissimo sociolinguista scomparso troppo presto», che ha definito mirabilmente anche il ‘valore del silenzio’, Gheno attualmente cura un seguitissimo podcast per il quotidiano on line Il Post, dal titolo Amare parole: venti minuti densi di conversazione che prendono spunto da notizie e avvenimenti di attualità, suffragati da dati e citazioni riportati con precisione più che accademica, per suscitare una riflessione sul linguaggio e sui suoi cambiamenti.
Guai però a definirla come una ‘paladina’ della nostra lingua: «L’italiano si difende benissimo da solo – asserisce -: di fronte a sé non ha nemici, semmai qualche complicazione, ha bisogno soltanto di chi lo sappia amare, nella sua bellezza, e utilizzare, nel suo infinito ventaglio di potenzialità».
Ecco perché, a suo avviso dovremmo essere tutti sempre più grammamanti e sempre meno grammarnazi: cioè persone «che, amando la lingua, la studiano e la lasciano libera di mutare a seconda delle evoluzioni della società, e non individui che si arroccano dentro a una fortezza di certezze, con la monolitica convinzione che le parole che usiamo siano sacre, immobili e immutabili».
«Macché – dice lei -, non abbiamo che farcene del linguapiattismo: abbiamo a portata di mano uno strumento potentissimo per conoscere noi stessi e costruire la società migliore che vorremmo: la nostra lingua».
Vera Gheno è stata ospite dell’Università di Catania per ricevere un premio, promosso dal Centro universitario teatrale, insieme con il cantautore Mario Venuti, in occasione dell’incontro dal titolo Parole d’autore - Comunicare la cultura per promuovere le idee, organizzato nell'ambito della XIV edizione Taobuk, il festival internazionale della letteratura(leggi l’articolo di Riccardo Finocchiaro).
Vera Gheno al Cut
Abbiamo colto questa occasione per conoscere la sua opinione su alcuni aspetti legati allo stato attuale della lingua italiana, nei vari contesti della sua applicazione, e alla sua possibile evoluzione, partendo proprio da uno degli spunti suggeriti dalla motivazione del premio per poi proseguire con argomenti recentemente trattati in alcune puntate del suo podcast: un programma che si conclude sempre con la formula: speriamo che le parole si trasformino da amare in amabili, parafrasando uno dei versi universalmente più conosciuti del ‘sommo’ poeta fiorentino e svelando, per un consapevole gioco, che l’”amare” del titolo del programma è chiaramente un verbo all’infinito, e non già un aggettivo, come invece appare di primo acchito.
Il linguaggio modella dunque il nostro modo di pensare? Le parole sono ancora oggi importanti, come recita il mantra di Michele Apicella in “Palombella rossa”?
«L’importanza delle parole non è mai cambiata, nel corso dei millenni della storia dell’umanità. È vero, oggi tutti sostengono che siamo nell’era dell’immagine, che la potenza di un’immagine può valere più di mille parole. Bene, ma quali parole? In un’immagine ciascuno di noi può leggere infatti un significato diverso da tutti gli altri, e quindi se abbiamo bisogno di precisione, di qualcosa che sia il meno possibile interpretabile e il più possibile già interpretato, allora dobbiamo ricorrere sempre alle parole. Non è convinzione unanime che il linguaggio modelli il nostro modo di vedere la realtà, ci sono tanti filoni di studi che si esprimono in maniera difforme tra loro. Sicuramente, però, esso manifesta una co-dipendenza rispetto alla cultura e alla società che lo partorisce, è innegabilmente ‘figlio’ di quel determinato periodo storico. A noi spetta capire che il nostro punto di vista sul mondo, che è aiutato dal modello linguistico di riferimento, è comunque parziale. Ce ne sono sicuramente degli altri che finora non abbiamo mai visto».
Lei ha detto che molta gente oggi utilizza una “lingua plastificata, banale, ridondante, ristretta alle prime soluzioni che ci vengono in mente”. Che effetti può avere questa tendenza su un possibile impoverimento della comunicazione o del pensiero?
«Il nostro cervello funziona sempre seguendo il principio del minimo sforzo, quindi tutti e tutte nel nostro quotidiano parliamo sempre allo stesso modo, in maniera se vogliamo anche banale e ripetitiva; poi è chiaro che chi lavora con le parole ne userà di più, perché viene richiesto dal contesto. Non vedo per questo rischi di impoverimento della lingua rispetto a una fantasticata età dell’oro: non c’è mai stata un’epoca in cui tutti parlavano e scrivevano meglio, ma periodi in cui c’erano molte meno persone che parlavano e che potevano scrivere in pubblico. Ciò che è diverso rispetto al passato, appunto, è che oggi molte più persone, grazie alle nuove tecnologie, possiedono una voce ‘pubblica’. La disponibilità dei canali di comunicazione è aumentata a una velocità inaudita, la qualità della comunicazione invece non è cresciuta con la stessa rapidità. È evidente che ci troviamo in una situazione nella quale, come esseri umani, siamo decisamente rimasti un po’ indietro, perché cognitivamente facciamo fatica a gestire tutta la complessità comunicativa che abbiamo attorno. Non riuscire a fare differenza tra i vari contesti in cui si sta comunicando, per esempio, è uno degli aspetti più preoccupanti: spesso non si riesce a distinguere tra pubblico e privato, tra dentro e fuori. Parliamo con i figli o con gli amici, allo stesso modo in cui ci rivolgiamo a un professore, al parroco, a un medico, o a un giornalista che ci intervista per la tv. Ma non imputo una colpa specifica ai parlanti: sarebbe invece il caso di abituare, sin dalla scuola, le persone a una maggiore mobilità tra contesti differenti, come sosteneva nel 1975 De Mauro nelle sue tesi per l’educazione linguistica democratica».
La consegna del Premio Cut
Chiamando in causa la scuola, è inevitabile chiedersi dove sta andando il linguaggio della generazione che oggi ha dagli 11 ai 17 anni, i cosiddetti figli di Whatsapp, che sembrano alle prese con una deriva inarrestabile di mezze parole e di periodi smorzati dovuta probabilmente all’effetto di chat e social. C’è il rischio, come sostengono alcuni, che di fronte all’incapacità di molti di loro nel costruire contenuti complessi, si vada incontro a una ‘regressione neuronale’?
«No, nessuna regressione. Come dicevo, può esserci una situazione di comprensibile disorientamento di fronte a una maggiore complessità dell’orizzonte comunicativo. La nostra generazione era chiamata a comunicare in pochissimi contesti: famiglia, scuola, sport, amici, e poco altro. Contesti molto più ristretti di quelli attuali, che riuscivamo perciò a gestire più facilmente. I ragazzini di oggi invece vivono in contesti esplosi in cui può capitargli di incontrare ogni giorno un giapponese, un indiano, un arabo, un americano e questo doversi relazionare con le diversità non è affatto innato: è qualcosa che si deve saper acquisire e quindi i maggiori ostacoli che incontrano i ragazzi e le ragazze di oggi non dipendono solamente da loro. È andato avanti il panorama, in altre parole, e la nostra società non gli ha ancora fornito tutti gli strumenti idonei. E poi riflettiamo sul fatto che si parla male delle generazioni successive alla propria sin dai tempi di Platone: noi eravamo la generazione del walkman e della musica sparata nelle cuffiette, ma non ci siamo mica ‘rincoglioniti’ per questo. Anche quelli che stavano per ore piantati di fronte alla tv sono sopravvissuti. I giovani d’oggi non sono peggiori di noi, sfatiamo questo luogo comune. Sono persino più fortunati, perché possono avere accesso a competenze linguistiche che noi ci saremmo solo sognate: mia figlia ad esempio frequenta, con la massima disinvoltura, un corso di coreano on line. Ecco perché bisogna anche saper guardare con ottimismo alle incredibili potenzialità delle nuove generazioni».
A proposito della comunicazione sui social, lei rileva che spesso determinati post sono frutto di disfunzioni relazionali e comunicative che ci avvelenano la vita. Quali sono questi ‘veleni’ e quali pensa possano essere gli ‘antidoti’?
«Parlo della mia esperienza personale. Per il lavoro che faccio e per il solo fatto di avere una posizione pubblica, ricevo da chi mi segue tantissimo amore. Ma anche tanto odio, che spesso non è indirizzato verso ciò che dico ma verso la mia persona o le mie competenze. Fa male, come può far male a chiunque altro, sentirsi attaccati e insultati sul piano personale, senza neanche entrare nel merito degli argomenti che propongo. Io però sono presente su Internet da quasi trent’anni e finalmente ho capito che se qualcuno sente il bisogno di offendere o denigrare una persona che non conosce realmente, allora il problema è tutto suo, non di chi riceve gli insulti: ha evidentemente dei disagi tali che lo spingono a comportarsi in maniera antisociale. Poi magari in presenza, lontano dalla tastiera, si comporta come un agnellino. Allora, se riusciamo a capire che chi ci sta denigrando vive un disagio, le sue parole, che aspirano a ferirci, assumono un peso diverso e questa consapevolezza ci permette di corazzarci nei confronti di chi, nel contestarci, non riesce neppure a stare sull’argomento».
Vera Gheno in un momento del suo intervento
Sfioriamo un’altra tematica bollente. Lei parla apertamente di linguaggio ‘ampio’, non di linguaggio inclusivo, uno degli aggettivi mainstream del momento. Cosa intende con questa distinzione?
«Il concetto di inclusione ha in sé il limite di farci continuare a pensare che ci sia chi ha il diritto di compiere l’atto di includere, i cosiddetti normali, e chi invece può soltanto venire incluso, i tanti ‘diversi’. Quando parlo di linguaggio ‘ampio’ io scelgo invece una dizione coniata dallo scrittore e attivista Fabrizio Acanfora. La ‘convivenza delle differenze’ di cui parla implica un’apertura a tutte le caratteristiche umane che abbiamo intorno, e al tempo stesso cerca di relativizzare il punto di vista a cui siamo abituati: un paradigma assolutamente eurocentrico, bianco, cristiano-cattolico, abile, maschile, etero-cis-normativo eccetera eccetera, tuttavia non cancellandolo ma considerandolo come uno dei tanti punti di vista possibili, perché in fondo la realtà non è altro che una collezione infinita di cose. Relativizzare significa per esempio provare a raccontare quella che noi chiamiamo da secoli “scoperta dell’America”, per la nostra società scontato e universale, dal punto di vista dei nativi americani. Gli atzechi e gli incas che all’epoca andarono incontro alle navi di Cortés e Pizarro, oggi ce la racconterebbero senza dubbio come una grande sfiga, che ha portato con sé genocidi, distruzione e assimilazione culturale».
Finora abbiamo riflettuto su linguaggi e parole. Concludiamo con una battuta sul silenzio: può essere anch’esso altrettanto comunicativo di certe parole, o è solo un ‘vuoto’ utile per esorcizzare chi soffre d’incontinenza verbale?
«Cardona diceva che il silenzio è indispensabile per permetterci di cogliere i limiti delle parole e identificarle, come sul rigo musicale la pausa tra due note. È una specie di co-dipendenza tra pieni e vuoti della comunicazione: gli uni non possono esistere senza gli altri, alla fine. Ma, al di là di questo, esistono dei silenzi che esprimono tantissimo, dall’imbarazzo alla rabbia, dal rispetto alla stessa negazione dello spazio di parola. Dobbiamo, tutti, esercitarci a cogliere questa gamma infinita di sfumature che esprime il silenzio, invece di riempire spasmodicamente di parole ogni momento».