American beauty? Francesco Costa racconta i tanti volti dell’America

Il vicedirettore del Post è intervenuto nell’auditorium “Giancarlo De Carlo” del Monastero dei Benedettini per presentare il suo ultimo libro, “Frontiera. Perché sarà un nuovo secolo americano”

Chiara Racalbuto (foto di Alfio Russo)

C’è un’America che parla di sogni, di libertà, in cui tutto è possibile se resti hungry and foolish. C’è l’America di Hollywood, dei tramonti di La la land e del Manhattan Brigde di C’era una volta in America, delle luci orgogliosamente kitsch di Las Vegas e dei grattacieli di New York, dove tutto è grande, tutto è super, tutto sembra brillare come dentro un episodio di Happy Days. C’è l’America della televisione, soprattutto: «Se vogliamo sapere qual è la normalità americana – cioè cosa gli americani considerano “normale” – possiamo contare sulla televisione», scriveva il compianto David Foster Wallace.

E poi c’è un’altra America, come il Sottosopra di Stranger Things: una dimensione alternativa in cui le luci si abbassano, i colori si spengono, i sorrisi smaglianti spariscono dai cartelloni pubblicitari. Ed ecco l’America di George Floyd, di Capitol Hill, di Columbine e Sandy Hook, della National Rifle Association e delle armi vendute nei supermercati, del capitalismo sfrenato e degli antidepressivi senza prescrizione, della sanità privata e degli homeless sul Sunset boulevard, del diritto all’aborto negato in molti stati e di libri sacri bruciati da predicatori fanatici.

Qual è allora il vero volto dell’America? Chi sono davvero gli americani, e come possiamo noi europei capire un mondo tanto lontano, eppure così vicino?

Il giornalista catanese Francesco Costa, vicedirettore del “Post” e autore del podcast “Morning”, intervenuto all’Auditorium “De Carlo” del Monastero dei Benedettini (lo stesso in cui si laureò) per presentare il suo ultimo libro, Frontiera. Perché sarà un nuovo secolo americano (Mondadori), ha provato a rispondere a queste e altre domande e a delineare un possibile ritratto di un Paese pieno di contraddizioni, che danza sull’orlo del precipizio riuscendo sempre a non caderci dentro.

Un momento dell'intervento di Francesco Costa

Un momento dell'intervento di Francesco Costa. Ai suoi lati Marina Paino e Claudia Cantale da un lato, Antonio Sichera e Giuseppe Palazzolo dall'altro

All’incontro, organizzato dal Dipartimento di Scienze umanistiche e introdotto dalla direttrice Marina Paino, sono intervenuti i docenti di Letteratura italiana contemporanea Antonio Sichera Giuseppe Palazzolo e Claudia Cantale, ricercatrice di Sociologia dei Processi culturali e comunicativi.

Appassionato degli Stati Uniti ed esperto di politica statunitense, il giornalista cura dal 2015 il progetto Da Costa a Costa, con una serie di video sul suo canale YouTube che raccontano l’America da vari punti di vista: dal rapporto degli americani con la religione alla storia dei Levi’s, dallo scandalo Lewinski al modo in cui si fa la spesa nei supermercati a stelle e strisce.

«Questo non è un libro di politica – spiega Costa –, ma un libro antropologico, che cerca di raccontare come sono fatti gli americani, e perché sono fatti così». Gli americani non sono né migliori, né peggiori di noi: sono solo diversi. Una distanza non solo geografica, ma anche e soprattutto culturale.

L’antiamericanismo, complice una politica estera aggressiva, è sempre più diffuso dalle nostre parti: «se c’è una cosa che unisce è questo sentimento di fastidio nei confronti degli americani: quando noi, al bar, in contesti universitari o in dibattiti politici, parliamo degli americani li definiamo spesso ignoranti, senza cultura, dei bambini in corpi di adulti».

Perché succede?  «Succede perché siamo, appunto, diversi – spiega il giornalista -. Nel rapporto con il rischio, con lo Stato, con le tasse, con il sacro, con la Storia. Quindi mi interessava capire perché, se noi fossimo nati lì, saremmo come loro».

Un momento dell'intervento della prof.ssa Marina Paino

Un momento dell'intervento della prof.ssa Marina Paino

Ma questo sarà davvero un nuovo secolo americano? Henry Luce, giornalista del Time, nel 1941 coniò il termine Secolo americano per descrivere il predominio politico, economico e culturale degli Stati Uniti che avrebbe segnato il XX secolo. Gli yankees, usciti vittoriosi dalla Seconda Guerra mondiale, divennero una superpotenza che in breve tempo avrebbe cambiato usi, costumi e modi di vivere a livello globale, dando il via alla nascita del “sogno americano”.

«Questo secolo che stiamo attraversando sarà un altro secolo americano», precisa il giornalista. «So che questa affermazione può suscitare alcune perplessità: negli ultimi vent’anni si è parlato spesso del possibile, inevitabile sorpasso della Cina, del fatto che gli Stati Uniti sono un Paese in declino, ed effettivamente è stato così – aggiunge -. La Cina stava davvero sorpassando gli Stati Uniti, ma questo sorpasso non si è mai concretizzato. Sono successe delle cose che hanno cambiato il quadro. Le cose cambiano con grande rapidità, e cambiano anche gli americani, anche se spesso noi non ce ne accorgiamo».

Con nuovo secolo americano, l’autore non intende che gli Usa diventeranno un Paese modello: «Il ‘900 è considerato dagli storici il Secolo americano – sottolinea Francesco Costa -. Questo vuol dire che gli Stati Uniti, nel ‘900, fossero un Paese modello? No, come dimostra, ad esempio, la segregazione razziale. Vuol dire che, nel ‘900, gli Stati Uniti non facessero disastri? Guatemala, Cambogia, Laos, Honduras, dicono il contrario. Vuol dire – prosegue Costa – che non andassero incontro a fallimenti? No, come testimonia la drammatica esperienza del Vietnam».

Gli Stati Uniti, peraltro, nel ‘900 non erano l’unica superpotenza: fino alla sua dissoluzione, hanno condiviso il palcoscenico con l’Unione Sovietica. «Quando sostengo che il ‘900 sarà ancora un secolo americano, dunque, intendo che gli americani avranno ancora fallimenti, combineranno disastri, la loro potenza sarà contestata e contesa da altre nazioni, ma resteranno ancora il Paese che “dà le carte”, dal quale osservare come vanno le cose», aggiunge il vicedirettore del Post.

Il pubblico presente all'incontro

Il pubblico presente all'incontro

Ma come fanno, nonostante le imperfezioni, i fallimenti, i disastri, a rimanere sempre il Paese dominante? «Ci riescono per come sono fatti loro, culturalmente e antropologicamente. Questo “come sono fatti loro” racconta una serie di cose molto contraddittorie su ciò che sta avvenendo al momento negli Stati Uniti», precisa.

«Il Paese, infatti, sta attraversando la fase di maggior sviluppo economico della loro storia – aggiunge -. Stanno beneficiando di un’economia che fa bene soprattutto alle persone meno abbienti, cercando così di ridurre le disuguaglianze, che sono ancora molto ampie. Non ci sono mai state così tante donne, mamme, persone con disabilità con un lavoro. Gli stipendi sono in crescita. Gli americani sono il popolo migliore a giocare le regole del capitalismo».

Ma ci sono anche dei problemi: «Alcune cose sicuramente vanno male, come la perdita del diritto all’aborto in alcuni stati, che costringe le donne a portare avanti la gravidanza anche se il feto non ha alcuna possibilità di sopravvivenza o a intraprendere viaggi faticosi per esercitare il diritto all’aborto in uno stato in cui non è vietato – spiega -. E poi la sanità privata, un sistema fiscale penalizzante, l’immigrazione. Insomma, i problemi sono tanti».

Com’è possibile che alcune cose vanno molto bene e altre molto male? «Per avere una società che va a tutta velocità, che spinge sempre più forte, il prezzo da pagare è avere al tempo stesso una società “feroce”. Esiste una via di mezzo possibile fra questi due estremi?», aggiunge Francesco Costa.

Un momento dell'intervento di Francesco Costa

Un momento dell'intervento di Francesco Costa

Se parliamo di “ferocia”, non si può non citare il problema delle armi. Negli Stati Uniti circolano circa 400 milioni di armi da fuoco. Secondo alcune statistiche, ogni anno circa 30mila persone rimangono uccise da armi da fuoco, mettendo nel conto i suicidi e le stragi di massa, che fanno ormai sempre meno notizia. Ma come mai, nonostante i morti, nonostante Columbine, Las Vegas, Virginia Tech e persino Sandy Hook, dove a morire furono bambini delle elementari, le armi continuano a circolare liberamente negli Stati Uniti? Perché la società americana è così violenta?

«Quando sei negli Usa – spiega Costa - la sensazione che hai è che le vite, tutte le vite, non siano eccezionali, e che la morte sia un ingrediente da accettare, una cosa normale da mettere in conto. Inoltre, bisogna guardare al modo in cui è nata la storia americana».

La storia europea è stata una lunga lotta delle persone per cercare di mettere dei limiti alla violenza dei potenti, cioè, per mettere sotto il controllo democratico l’uso della violenza da parte dello Stato.

La storia americana, invece, è diversa. «Gli americani delle prime colonie della costa est cominciarono a spostarsi verso ovest non in quanto emissari di un potente o di uno stato, ma autonomamente. Si spostavano per cercare l’oro, per convertire i nativi, fondavano insediamenti, ma non c’era uno Stato a cui potessero rivolgersi per difendersi, quindi era necessario che si armassero, così le armi e la violenza diventarono un prezzo cruciale della loro identità», spiega il giornalista.

«Quando vennero fondati gli stati, quindi, loro erano già armati ed erano scappati dal Regno Unito proprio perché lo consideravano una tirannia; quindi, hanno pensato che l’unico modo per avere garantita la loro libertà fosse essere armati», aggiunge.

Questo crea una società in cui le armi non sono solo un ingrediente fondamentale, ma anche identitario: «Alcuni possiedono armi ma non sanno neppure usarle – precisa -. Comprare un’arma è un modo per dire chi si è, una questione di identità».

Il pubblico presente in auditorium

Il pubblico presente in auditorium

Possedere un’arma, paradossalmente, serve a mantenere quella ingenua fiducia nel genere umano che gli americani conservano. Con una pistola sul comodino si può dormire con la porta aperta: se entra qualcuno, ci si può difendere.

«Loro si fidano sempre degli altri – spiega il giornalista – mantengono un entusiasmo quasi infantile, si lanciano a capofitto su tutto quello che fanno. A volte vanno sulla Luna, altre volte combinano disastri. Hanno un approccio al rischio e alle sfide completamente diverso dal nostro. Loro intanto si buttano, poi man mano aggiustano, regolano, modificano».

Un altro elemento centrale della società americana è il rapporto con il denaro. «Il denaro pesa tanto mentre il resto pesa meno, quindi quello che rimane è il denaro, che permette di coltivare i rapporti sociali e di inserirsi in società. Più che quello che sei, conta quanto guadagni». Ma siamo sicuri che sia così solo oltreoceano? O è così anche per noi e forse, semplicemente, ci nascondiamo?

Il libro di Costa, frammentato come la realtà, come tutti i suoi libri che, come sottolinea il prof. Antonio Sichera, «hanno il merito di non essere mai unidirezionali», non parla solo degli americani.

«Questo libro parla di noi molto più di quanto sembri: in moltissimi casi, gli americani sono infatti il modo migliore per misurare sé stessi – aggiunge -. Spesso è necessario prendere un punto di riferimento esterno a cui potersi paragonare: io utilizzo molto gli americani e la società statunitense, che è una società “estrema” per tantissimi aspetti, proprio per provare, vedendo delle cose che esistono anche qui, ma in una forma diversa, a conoscere un po’ meglio noi stessi». 

La video intervista a Francesco Costa