Un programma di film selezionato dalla rivista accademica "Another Gaze" in collaborazione con alcune registe iraniane. Un catalogo di opere documentarie e sperimentali, animate dalla volontà di ricostruire gli effetti della diaspora e il ruolo delle immagini secondo una prospettiva culturale femminista
Da ormai cento giorni assistiamo quasi inermi agli esiti cruenti dell’ultima rivoluzione iraniana, testimoniati dai media internazionali anche attraverso i video social prodotti dal basso. Il programma "Films from Iran for Iran" di Another Screen, promosso dalla rivista accademica "Another Gaze", nasce dalla stessa volontà di dare espressione diretta a chi ha vissuto, conosciuto o dovuto lasciare il Paese per effetto di rivolte o traumi politici.
Diciassette registi e registe, 22 produzioni coinvolte: sono questi i numeri di Films from Iran for Iran, in streaming fino a mercoledì 4 gennaio 2023, con un catalogo di opere miste – documentarie e sperimentali – animate dalla volontà di ricostruire gli effetti della diaspora e il ruolo delle immagini, non solo nel contesto iraniano ma in tutto il bacino dell’Occidente, secondo una prospettiva culturale femminista. La piattaforma propone per ogni produzione un’introduzione in inglese, francese e arabo, sottotitoli e interventi di commento o saggistici di registi e registe e studiosi e studiose, coniugando così ricerca visiva intenti divulgativi e di approfondimento.
La forza degli archivi
Il punto di partenza è la prima sollevazione delle donne in occasione dell’istituzione dell’obbligo di portare il velo, il 7 marzo 1979: “Iranian Women’s Liberation Movement: Year Zero” (1979) è il frutto del lavoro di reportage di femministe francesi, in collaborazione con movimenti locali, che dopo l’espulsione dal Paese hanno estrapolato alcune sequenze dalle pellicole portate via e messe in salvo.
Le visioni offerte in molti dei film in catalogo tentano prima di tutto di scardinare internamente il sistema edulcorato proposto dai media. Sono quindi le immagini in sé a essere messe in discussione, quando si trasformano in strumenti al servizio di idee stereotipate o di prevaricazioni, come in “The Silent Majority Speaks” di Bani Khoshnoudi (2010).
Guardando più da vicino le opere proposte, si intuisce la forza degli archivi, di qualunque natura (privati, di propaganda o di rete), capaci di trasformarsi in fonte da rielaborare. Sono tantissime le immagini nate dalla "paura", provenienti dai canali di video sharing online, che vengono "riciclate" e colpiscono per la loro crudezza, ma anche per la loro poeticità.
È il caso del canto notturno ripreso dal telefonino di una ragazza che, in risposta ad altri giovani, si interroga sul "senso di quello spazio, di quel luogo" che è diventato l’Iran nel film The Silent Majority Speaks. Accade così che il bisogno di mantenimento e "ricostruzione" di una memoria personale e collettiva diventi il fil rouge di molte narrazioni audiovisive.
Le riprese, le interviste e le ricostruzioni (anche in forma di poemi visuali o film-saggi) trovano nell’etica del trattamento delle immagini e dei racconti un messaggio essenziale, che attraversa la Storia, dal passato all’epoca del digitale.
In alcuni casi la questione etica diventa cruciale, come dimostra la rappresentazione di una principessa iraniana queer dalla fine dell’Ottocento alle sue immagini che circolano oggi in rete in “Gut Feelings: Fragments of Truth” (Katayoun Jalilipour, 2022).
Le opere, pur essendo molto diverse fra loro, sono accomunate da una prospettiva intergenerazionale e intersezionale che dalla questione femminile muove verso temi di ordine storico, sociale, di genere o sessuale, etnico e politico-economico.
In tutti i film colpisce poi l’uso della voce e dei corpi, con momenti di canto collettivi per le strade e sui tetti o traumatici silenzi individuali; a prescindere dalle circostanze, riparte sempre un inno alla libertà che – come recita una canzone presentata – non è né orientale né occidentale, ma globale.