La recensione de La primavera della mia vita, il primo film del regista Zavvo Nicolosi e dei cantautori siciliani Colapesce e Dimartino
“Dai diamanti non nasce niente” cantava il poeta. E dal pop, a volte, nascono dei piccoli fiori. In un panorama cinematografico e televisivo saturo, ridondante, spesso vuoto, derivativo e pretenzioso, chi poteva aspettarsi che una boccata d’aria fresca potesse arrivare proprio da lì dove non la cercheresti.
Colapesce e Dimartino, al secolo Lorenzo Urciullo e Antonio Di Martino, entrambi cantautori siciliani (di Solarino il primo, palermitano il secondo) dalla decennale carriera – sdoganati su scala nazionale, come duo, dalla doppia partecipazione sanremese: nel 2021 con Musica Leggerissima, e nel 2023 con Splash – esordiscono come protagonisti di un film tutto siciliano, dal titolo La Primavera della mia vita (prodotto da Wildside, Vision Distribution e Sugar Play, 2023), diretto dal regista paternese Zavvo Nicolosi, anche lui al suo primo film. Se vogliamo, entrambi i brani sanremesi anticipano già quello che, trasposto in altro linguaggio, sarà lo spirito del lungometraggio.
Un’estetica (musicale, testuale e poi visuale) all’apparenza leggera, appunto, ammiccante alla tradizione pop dei coloratissimi anni ’60, ma impregnata in realtà di un’onirica malinconia. I due, oltre che per la musica, apprezzata da pubblico e critica della kermesse, sono riusciti a distinguersi anche per una presenza scenica da veri outsider.
Sottraendosi alla tendenza dominante, che vuole i cantanti autoproclamarsi divi e impegnati a far di tutto pur di attirare, disperatamente e pateticamente, l’attenzione, Colapesce e Dimartino assumono un portamento opposto: pacati, impassibili di fronte alle telecamere, mai sopra le righe, si esprimono, con accento siculo nemmeno dissimulato e con un sarcasmo cinico e pungente, o meglio con un atteggiamento che, proprio dei siciliani, può essere espresso solo da una parola dialettale: liscìa. Sui generis in quanto estremamente normali, troppo rispetto al mondo dello showbiz.
La primavera della mia vita - Colapesce e Dimartino
Una collaborazione ormai di lungo corso
Già da anni i Ground’s Orange, con la regia di Nicolosi, hanno saputo affermarsi su scala nazionale come una delle più interessanti e originali realtà per quel che riguarda la realizzazione di videoclip, realizzandone per artisti quali, tra gli altri, Baustelle, Zen Circus (girato in parte al Monastero dei Benedettini), Canova. Si ricorda poi un progetto mediatico del tutto originale, quale la creazione e la promozione di un personaggio-“artista fantasma”, Cambogia. Ma è proprio dalla collaborazione con Colapesce che sono nati alcuni dei prodotti più notevoli, piccoli gioielli come Maledetti Italiani (2014) e Maometto a Milano (2018), che per qualità realizzativa, accuratezza estetica e gestione dell’impianto narrativo possono essere considerati a tutti gli effetti dei cortometraggi.
Se già in lavori come questi citati è possibile rintracciare in nuce alcuni stilemi che verranno ripresi anche nei prodotti più recenti, è in concomitanza con l’esordio discografico della coppia Colapesce-Dimartino, e con i videoclip per loro realizzati, che iniziano a delinearsi i tratti più caratteristici dello stile di Nicolosi, che ritroviamo anche in La Primavera della mia vita.
A partire dai due esperimenti che hanno preceduto la pubblicazione del debutto discografico: il cortometraggio di lancio, omonimo al disco, I Mortali e il live movie dallo stesso titolo, in cui narrazione astratta, ambientazioni mistiche, intermezzi comici ed esecuzione dei brani sono mescolati in un originale cocktail. Come rivelato dagli stessi durante l’incontro con gli studenti e i docenti d’aria performativa del Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania che si è tenuto il 24 febbraio scorso all’Auditorium "Giancarlo De Carlo" del Monastero dei Benedettini, la base del soggetto nasce da un’idea a cui i due musicisti lavorano già da qualche anno, sviluppata poi in sinergia con il regista e con l’aiuto dello sceneggiatore Michele Astori (scrittore, tra gli altri, dei lungometraggi del palermitano Pif).
A impreziosire il film, i cameo di figure di primo piano del panorama musicale italiano e internazionale: tra tutti, Roberto Vecchioni complottista, Madame, Erlend Øye dei i Kings of Convenience, Brunori Sas. La colonna sonora – curata dagli stessi Colapesce e Dimartino – rimanda ai lavori più classici di Ennio Morricone, con citazioni evidenti allo stile delle soundtrack dei western e delle commedie all’italiana composte dal maestro romano. Il tema portante, che ritorna costantemente con le sue variazioni, non poteva essere, in un’interessante manovra di marketing, che quello del successo sanremese: Splash.
Oltre i personaggi
Il diaframma tra persona e personaggio, tra Lorenzo-Antonio e Colapesce-Dimartino è sottilissimo. Così abbiamo imparato a conoscerli sui palchi, nelle interviste, durante gli interventi televisivi (si veda ad esempio la loro presenza regolare a Propaganda Live) e soprattutto nelle clip e nei videoclip pubblicati sui canali YouTube del duo (consultabili individualmente: Colapesce e Dimartino), e diretti sempre da Nicolosi (e dal collettivo di cui fa parte, i Ground’s Orange), spesso coadiuvato da Giovanni Tomaselli (del collettivo Cinepila).
Colapesce e Dimartino sono due amici e così si presentano. Ma se nelle apparizioni pubbliche appaiono ancora legati al proprio ruolo di musicisti, nei lavori diretti da Zavvo si sviluppano alcune peculiarità. Sottratti all’appoggio confortevole della realtà, immersi in situazioni filmiche metafisiche, i due mostrano infatti i tratti affini a famosa coppie: quella beckettiana di Estragone e Vladimiro, i Totò e Vicè scaldatiani, i palermitani Franco e Ciccio, i napoletani Totò e Peppino, i Benigni e Villaggio protagonisti dell’ultimo Fellini, fino a Stanlio e Ollio e agli archetipici, forse progenitori di tutti questi, Fatty e Buster. Tutte coppie comiche, ma ancora prima malinconiche, interpreti di un’inadeguatezza esistenziale, di una primordiale ingenuità che li immette in un perenne, irrisolvibile, contrasto con la modernità e la logicità dell’esistenza e della realtà. Come in molti di questi esempi, espressione di questo atteggiamento nei confronti della vita si trova negli stranianti e surreali scambi di sguardi e – fino ad ora rari – di battute tra i due protagonisti.
Una Sicilia ‘metafisica’
In continuità con quanto sopra notato a proposito della peculiare quasi coincidenza tra personaggi e interpreti, nel film Colapesce e Dimartino vestono i panni di sé stessi. Sono passati tre anni da quando il duo, per divergenze creative, si è separato. Una separazione sul piano artistico, ma anche su quello umano. Quando Antonio si rifà vivo, destando in principio stupore e diffidenza in Lorenzo, con un progetto supportato da dei misteriosi finanziatori, l’amico - rimasto sul lastrico – non può fare altro che accettare. I due sono stati incaricati di scrivere un libro sulle leggende e i miti siciliani, da parte – si scoprirà più avanti – dei membri di un misterioso culto eco-millenarista: i semeniti.
È chiaro che questo è solo un pretesto che serve agli autori per costruire un atipico road movie siciliano che porterà i due protagonisti in un’immaginifica epopea coast to coast sull’Isola – a bordo dell’iconica Lazzaro, una Ford Taunus station wagon degli anni ‘80, eloquentemente targata “I Metafisici” e dipinta di una tonalità arancione sgargiante, che tanto riporta alla mente la General Lee di Hazzard.
E quello dei due diventa un viaggio che assume davvero tratti metafisici, appunto: perché, se da un lato il film vuole a suo modo essere un tributo alla bellezza multiforme della nostra terra, dall’altro riesce nel suo intento pur trasfigurando le location in asettici non luoghi, (de)contestualizzando la storia in un altrove non meglio definito, sottraendosi a ogni campanilismo da promozione turistica di luoghi già inflazionati. Operazione per certi versi speculare e opposta a quella compiuta, in altro senso, da due illustri predecessori: quei Ciprì e Maresco che con i loro film e, soprattutto, con i mitici episodi di Cinico TV, avevano saputo astrarre dalla Sicilia periferica una terra metafisica, sì, ma nel senso più desolato, squallido e purgatoriale.
La primavera della mia vita - Colapesce e Dimartino
Miti, complotti e leggende
Anche un certo gusto per il grottesco sembra rimandare alla lezione dei due cineasti palermitani. Uno dei temi principali che animano il film è quello della scanzonata presa in giro ai più volte nominati complottisti e creduloni d’ogni sorta, che riportano alla mente certe creature del bestiario cipri-mareschiano per come vengono bonariamente ritratti, a cominciare dai sostenitori delle teorie più strampalate e ‘virali’ che sono apparse in Sicilia nel corso dei secoli. Tra le altre: quella dell’antica popolazione sicula, autoctona, di giganti; la presenza dello spirito di Re Artù tra i deserti lavici dell’Etna; o l'ascendenza messinese di William Shakespeare. Il viaggio porterà i due protagonisti a vivere situazioni sempre più assurde: riti dionisiaci su una fantomatica isola minore delle Eolie; incontri con culti di vecchie rock star, tra la slam poetry e l’esoterico; macabre leggende su cimiteri eschimesi.
Ma come nel più canonico dei road movies, al viaggio esteriore corrisponde un viaggio interiore, il superamento dei contrasti tra i due amici, attraverso la risoluzione dei propri conflitti psico-spirituali. Questo approccio funge al regista quale input perfetto per sfogare le proprie ossessioni estetiche.
Negli ultimi anni si è assistito a un rinnovato interesse per i folklori locali in alcuni dei film di maggior successo: uscite recenti, come Lamb dell’islandese Valdimar Jóhannsson o Midsommar (2019) di Ari Aster, hanno ripreso leggende e miti scandinavi, adattandoli – secondo l’estro nordico – in un revival horror che non rinuncia più alla qualità espressiva, rimanendo nel genere pur scaturendo in prodotti autoriali. La primavera della mia vita sembra confrontarsi indirettamente con questo fenomeno. Re-interpreta i miti, ma stavolta secondo l’estro siculo: giocandoci e scherzandoci sopra, fino al finale – in cui l’influenza del film di Aster pare evidente, ai limiti della parodia – che fa deflagrare tutta la poesia che aveva vibrato sottotraccia per tutto il film, in una conclusione che è un ritorno alle radici: letterale (l’adempimento del rito semenita) e letterario (la metamorfosi ovidiana come archetipo d’ogni mito mediterraneo).
La primavera della mia vita - Colapesce e Dimartino
Lezioni di cinema semiserie
Se lo spunto iniziale richiama modelli come la ‘trilogia della strada’ di Wim Wenders, da un punto di vista registico caratteristiche distintive delle opere di Nicolosi sono la ricercatezza delle location, il gusto tra dada e surreale per l’impostazione di situazioni al limite del logico, e una cura maniacale dell’inquadratura. È da questi dati che bisogna partire per comprendere la buona riuscita del film. Se lo stile dei lavori musicali poteva far temere un’eccessiva volontà estetizzante che avrebbe fatto del lungometraggio un interminabile videoclip, il pericolo è stato scongiurato, mettendo questi stilemi al servizio del concept, sfuggendo alla tentazione di far l’esatto contrario.
Così le situazioni surreali, le insolite location, esotiche pur essendo situate tutte in Sicilia, l’impostazione grafica delle inquadrature offrono le coordinate perfette per esaltare lo spirito del film, che vince la propria scommessa proprio nella misura in cui rinuncia a prendersi troppo sul serio. Ecco, infatti, che lo stile della regia – che rimanda ai lavori di cineasti come il finlandese Aki Kaurismaki e lo statunitense Wes Anderson, citati come influenze dagli stessi autori, ma anche degli svedesi Ruben Östlund e Roy Andersson – innesca un ribaltamento.
Come i personaggi di molti dei film di questi autori, Colapesce e Dimartino, non essendo attori, e non avendo gli strumenti per tentare una recitazione pseudo-realistica, portano alle estreme conseguenze le premesse di un’interpretazione straniante e volutamente anti-immersiva, rimanendo quasi sempre fermi all’interno del quadro, e rinunciando a ogni velleità mimetica e a ogni forma di pathos nei dialoghi. E ancora come nelle opere dei registi citati, è proprio dal contrasto tra una recitazione di questo tipo, l’assurdità delle situazioni e la asetticità compositiva delle inquadrature – rimandanti a loro volta allo stile di fotografi come Gregory Crewdson e William Eggleston – che scaturisce il gusto sarcastico che anima il film.
Un atteggiamento che diventa anche autoriflessivo e metacinematografico quando la produzione a basso budget diventa pretesto su cui giocare. Si pensi alla scena iniziale, in cui il viaggio in aereo Milano-Palermo è sintetizzato da un passaggio in un corridoio sulle cui pareti sono affisse le foto delle due città; o ancora, alla sequenza del viaggio interiore di Colapesce, in cui il set del film – fonici, operatori, elettricisti – entra in scena, e la mistica foglia che il protagonista deve seguire per ritrovare sé stesso è trasportata da un assistente di produzione. Soluzioni divertenti che ostentano le intenzioni euristiche del regista, e che rimandano ad antenati illustri: penso ai cavalli de I Monty Python e il Sacro Graal (1975). Proprio dalla comicità dada dei Monty Python viene ripreso non solo lo spirito di alcune gag - si pensi all’esoterico coro degli albini, allo spot del servizio Speedy Pizzo (girato da Tomaselli), o alle Suore sommozzatrici, giusto per citare alcuni esempi – ma in generale l’impianto strutturale, che risulta frammentato in un susseguirsi di sketch, di fatto debolmente legate tra loro dalla trama orizzontale.
In conclusione, La primavera della mia vita riesce, non prendendosi troppo sul serio, a risultare interessante proprio per le sue leggerezza e autoconsapevolezza, e – in sostanza – spontaneità, distinguendosi da un marasma di film e serie ormai standardizzate e retoricamente banali, svuotate d’ogni tentativo di modesta e onesta originalità, proponendo di contro un’alternativa fresca e godibile, pur all’interno di dinamiche mainstream.